Blaise Pascal, engraving by Henry Hoppner Meyer, 1833.

Fede e ragione sussistono unite e non è possibile accedere alla salvezza e alla verità per mezzo di una sola delle due, a meno di una patologia dell’intelligenza. Sono anche analoghe, perché entrambe condividono il significato più nascosto che è nella scienza, nel sapere, nel pensiero.

Però la fede non è la ragione, altrimenti avrebbero lo stesso nome: tra di esse vi è una distanza infinita, che è quella tra Dio e l’uomo. Forse il filosofo che con più eleganza è riuscito a parlare dell’abisso tra fede e ragione è Blaise Pascal[1], del quale ricorrono (il 19 di giugno) i quattrocento anni dalla nascita. Pascal non distrugge certo l’unione tra fede e ragione, essendo l’autore dei Pensieri[2], una sorta di apologia del cristianesimo e – proprio in quanto apologia – fondati sul «credo ut intelligam»[3] medievale.

Fin dall’inizio Pascal è molto chiaro sul duplice aspetto dell’opera: dimostrare l’inseparabilità e la simultanea e abissale differenza tra fede e ragione. Egli infatti vede «due eccessi» inaccettabili: «escludere la ragione, non ammettere altro che la ragione»[4]. E perché mai? Perché «se si sottomette tutto alla ragione, la nostra religione non avrà nulla di misterioso e di sovrannaturale. Se si rifiutano i princìpi della ragione, la nostra religione sarà assurda e ridicola».

Ma subito, nel Pensiero successivo, Pascal sembra invece rompere l’equidistanza tra ragionevolezza della fede e abisso tra fede e ragione, negando il supporto essenziale della metafisica alla fede: «Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal ragionamento degli uomini e così complicate, che colpiscono poco; e, quando ciò servisse ad alcuni, non servirebbe che nell’istante in cui essi vedessero quella dimostrazione, ma, un’ora dopo, essi avrebbero timore di essersi sbagliati»[5].

Se così fosse, non avrebbero molto senso le «cinque vie»[6] di san Tommaso d’Aquino e l’Itinerarium[7] di san Bonaventura da Bagnoregio, i quali ascendono a Dio partendo dalle creature e dalla loro intelligibilità e ragionevolezza. La metafisica non è lontana dalla speculazione umana, ma ne rappresenta il culmine, secondo la filosofia e la teologia classica.

Secondo Pascal è un segno di debolezza il voler «provare Dio a partire dalla natura», eppure egli insiste nel ritenere che l’atteggiamento dell’uomo (secondo verità) deve poggiare sull’equilibrio tra lo «spirito di geometria» e «lo spirito della finezza»[8]. Lo spirito di geometria è il mondo della logica, più grossolano dello spirito di finezza, che invece permette all’uomo di organizzare in sistema l’enorme quantità dei princìpi sui quali poggia la realtà. Pascal non lo scrive, ma si potrebbe associare facilmente lo spirito di finezza alla metafisica, che è la capacità di cogliere il Tutto.

C’è, però, un Pensiero – che chiarisce molte cose, ma può anche portare all’equivoco – in cui la questione metafisica è centrale, seppure non dichiarata. È introdotto da un altro Pensiero, molto noto e frainteso: «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce; lo si riscontra in mille cose»[9]. Il «cuore» di Pascal non è ridotto al sentimento, proprio perché «ha le sue ragioni». Bonaventura e Agostino direbbero che queste ragioni sono collegate alle «ragioni eterne» di Dio, a monte delle cose e presenti in esse, come «ragioni seminali».

Più avanti Pascal spiega: «Noi conosciamo la verità, non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. È in questo modo che noi conosciamo i princìpi primi, ed è invano che il ragionamento, che non ha vi ha parte, cerchi di combatterli. I pirroniani, che hanno solo ciò per oggetto, vi si impegnano inutilmente»[10].

Altri, dopo Pascal, tratteranno proprio di un pensiero certo sulle cose, in opposizione netta alla filosofia di Cartesio e allo scetticismo. Ludovico Antonio Muratori[11], vissuto dopo Pascal, dimostra che vi è una grande quantità di princìpi su cui tutti concordano e sui quali vi è la certezza della verità, pur essendo la ragione umana imperfetta e ferita dal peccato originale. Sono gli stessi princìpi elencati da Pascal: «c’è spazio, tempo, movimento, numero»[12], per cui il cinque è maggiore di tre, il mare è diverso dalla montagna, il sole è tondo, e molte altre proposizioni simili.

La teologia è dunque pervenuta nel tempo ad un concetto di «senso comune», il quale trarrebbe le radici in san Tommaso d’Aquino: secondo i teologi Réginald GarrigouLagrange[13] e Antonio Livi[14] vi è un «istinto originario con cui la mente umana riconoscerebbe in maniera intuitiva e immediata i principî fondamentali della conoscenza (in partic., la nozione della realtà esterna), della morale (per es. il principio della libertà dell’agire) e della religione (per es. l’idea dell’essere divino), che sarebbero così sottratti tanto alla dimostrazione quanto alla critica della ragione»[15].

Il «cuore» di Pascal è appunto questo: «Il cuore sente che ci sono tre dimensioni nello spazio, e che i numeri sono infiniti; e la ragione dimostra poi che non vi sono due numeri quadrati l’uno dei quali sia il doppio dell’altro. I princìpi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per vie differenti»[16].

Proprio nel senso della scuola del senso comune di Garrigou-Lagrange e di Livi, Pascal usa la parola «istinto», nel medesimo Pensiero, come sinonimo di «cuore». C’è allora una sorta d’intuizione primordiale, che non è soggetta alla dimostrazione razionale – ma non per questo è meno certa oppure opposta alla ragione. Volesse Dio – esclama Pascal – che noi non avessimo mai bisogno della dimostrazione logica e conoscessimo ogni cosa «per istinto e per sentimento!»[17] E invece ne abbiamo bisogno, a motivo dell’imperfezione della natura umana. Si tratta di due mezzi che portano alla verità.

Risulta chiaro adesso che quella conoscenza pascaliana «per istinto e per sentimento» è una ragione superiore, che ha sede nella mens, nel nous, legata all’intellezione. Essa non si ferma alla scienza dianoetica e alla dimostrazione analitica. E, anzi, l’intellezione persegue la via opposta all’analisi, che la riduzione (reductio), cara a Bonaventura, che dai molti porta al Tutto.

Non solo, ma c’è pure un evidente parallelo tra Pascal e la scuola francescana. Il concetto pascaliano di «cuore» fa subito pensare all’«affectus» bonaventuriano, legato sì all’amore e al sentimento, ma anche elemento determinante per accedere alla sapienza (sapida scientia): la sapienza – scrive Bonaventura – «è la conoscenza delle cause prime e altissime, non soltanto nella maniera della conoscenza speculativa e intellettuale, ma anche a modo di quella gustativa e sperimentale»[18].

Certamente la conoscenza di Dio «ha molti gradi e strade», continua Bonaventura: «nella sua traccia [nelle cose], nella sua immagine [nel pensiero], nell’effetto della grazia [nei sacramenti], anche attraverso l’unione intima [nell’amore, nell’affetto]». Quest’ultima – nell’affetto – è detta «unione eccellentissima» e non può che portare alla sapienza, oggetto anche della metafisica[19].

Nonostante tutto ciò, pare che Pascal non riesca comunque a trovare una strada, un itinerario che possa rendere necessaria la ragione (speculativa o affettiva che sia). Egli non trova di meglio che scommettere – matematicamente – su Dio. Dinnanzi al mistero, Pascal rinuncia alla ragione metafisica e abbraccia il celebre «argomento della scommessa»[20], che si fonda sulla semplice logica matematica e si può riassumere così: è conveniente scommettere sull’esistenza di Dio perché, in caso di perdita (esiste solo il nulla), non perderei niente e, in caso di vincita (esiste solo Dio), avrei tutto da guadagnare.

È un po’ poco come argomento, anche solo perché ci si accontenta di utilizzare una logica semplice, simile alle idee chiare e distinte di Cartesio, che Pascal vorrebbe invece criticare. In questo senso, la teologia pascaliana potrebbe apparire contraddittoria. Da un lato Pascal è un apologeta, convinto della non separabilità di fede e ragione. Dall’altro egli è atterrito dall’abisso che ci separa da Dio e prospetta quasi una teologia negativa e apofatica – una teologia che fa capo al Dio nascosto della Bibbia.

C’è infatti spazio sufficiente, nella Rivelazione, per un Dio dell’oscurità. Dio si rivela, ma «abita una luce inaccessibile»[21]. E Isaia afferma: «Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore»[22].

Su questa verità, Pascal scrive che «Dio si è voluto nascondere», perché «se non vi fosse alcuna oscurità, l’uomo non avvertirebbe affatto la sua corruzione; se non vi fosse alcuna luce, l’uomo non spererebbe affatto in dei rimedi»[23]. Anche qui il filosofo unisce due estremi: se nel mondo ci fosse solo luce, l’uomo non potrebbe vedere il buio del suo peccato – e se vi fosse solo buio, sarebbe disperato e rinuncerebbe alla conversione. E dunque «non è solo giusto, ma utile per noi, che Dio sia nascosto in parte, e scoperto in parte, poiché è egualmente pericoloso all’uomo conoscere Dio senza conoscere la sua miseria, e conoscere la sua miseria senza conoscere Dio»[24].

È strano che Pascal non comprenda (o sembra non comprendere) che questo tipo di argomentazione è completamente affine alla metafisica ed è sicuramente più efficace alla causa della religione di una semplice scommessa. Tutti i Pensieri, tra l’altro, costituiscono una smentita ad un approccio alla religione esclusivamente apofatico. Pascal è in abbondanza catafatico e affermativo, come del resto cerca di essere tutta l’apologetica.

Quanto alla questione etica e morale, con difficoltà Pascal può non stare simpatico all’uomo della nostra epoca. Morì da martire, con dolore e sopportazione eroica della propria malattia: rigoroso e rigorista verso gli altri e verso se stesso.

Forse nel Seicento un certo lassismo gesuita ci poteva stare, vista la diffusa religiosità popolare. Oggi no, il lassismo ha fatto marcire l’anima. E cosa direbbe Pascal ai farisei moderni, che assolvono peccato e peccatore? Questo: «Gli antichi davano l’assoluzione prima della penitenza? Fatelo, ma come eccezione. Invece, dell’eccezione voi fate la regola senza eccezioni, dimodoché non volete neppure che la regola esista come eccezione»[25].

Silvio Brachetta

Dello stesso autore puoi leggere: “La città fondata su Dio. Alle origini della Dottrina sociale della Chiesa”, Cantagalli. Siena 2021.


[1] Matematico, fisico, filosofo e teologo francese. 19/06/1623 – 19/08/1662.

[2] Les Pensées de M. Pascal sur la religion et sur quelques autres sujets, qui ont été trouvées après sa mort parmy ses papiers [titolo originale], Guillaume Desprez editore, Parigi, 02/01/1670. Opera postuma.

[3] «Credo per capire»: espressione introdotta da Anselmo d’Aosta nel Proslogion, sul concetto più generale di sant’Agostino d’Ippona, sintetizzabile in: «credo ut intelligam, intelligo ut credam» («credo per capire, capisco per credere»).

[4] Pensieri nn. 3 e 4. Tutte le citazioni qui presenti dei Pensieri sono tratte da: Pensées, in Blaise Pascal, Oeuvres complètes, a cura di J.-J. Chevalier, Gallimard, Paris 1954, trad. it. a cura di Marco Magni.

[5] Ibid., n. 5.

[6] «Quinquae viae», ovvero cinque prove, cinque argomenti di ragione che dimostrano l’esistenza di Dio. Si ritrovano nella Summa Theologiae e nella Summa Contra Gentiles.

[7] Bonaventura di Bagnoregio, Itinerarium mentis in Deum, 1259. Secondo Bonaventura si giunge a Dio per un itinerario che inizia dalle vestigia delle cose create (in vestigio), passa per la conoscenza concettuale (per imaginem) e si conclude nella parte superiore dell’anima (o nel suo profondo, la mens) dove c’è Dio (in imagine). Qua termina la speculazione e comincia l’estasi (contemplatio).

[8] Pensieri, op. cit., nn. 7, 21.

[9] Ibid., n. 477.

[10] Ibid., n. 479.

[11] 1672-1750, presbitero italiano, scrittore e storico.

[12] Pensieri, op. cit., n. 479.

[13] 1877-1964. Teologo francese.

[14] 1938-2020. Teologo italiano.

[15] Voce «senso comune», in Il Vocabolario Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana.

[16] Pensieri, op. cit., n. 479.

[17] Ivi.

[18]Bonaventura di Bagnoregio, Quaestio disputata de perfectione evangelica, V, 120.

[19] Bonaventura di Bagnoregio, In III Sent. dist. XXIV.

[20] Pensieri, op. cit., n. 451.

[21] 1Tim 6, 16.

[22] Is 45, 15.

[23] Pensieri, op. cit., nn. 598, 599.

[24] Ivi.

[25] Ibid., n. XXII.

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