C’è da dire qualcosa sulla «retta ragione»[1], perché anche su questo concetto si annida spesso l’equivoco. La retta ragione non è la ragione umana che sa dare – o può dare – sempre una risposta su tutto. Non è la ragione che non fa errori. Non è nemmeno la semplice ragione logico-matematica, che è in grado di dare sempre un giudizio più o meno certo sulle cose e sulle circostanze. Certamente la ragione umana è anche la capacità logica e di giudizio, ma la mente non si riduce mai al puro calcolo e alla pura deduzione cartesiana.

La retta ragione è, innanzi tutto, una categoria della teologia morale, che richiede dei presupposti, dei quali la logica è al secondo posto. Al primo posto c’è l’umiltà: non ci può essere accesso al vero senza l’adeguamento tra le cose e l’intelletto – «veritas est adaequatio rei et intellectus»[2] – dove però l’intelletto è ricettivo e le cose (nel senso di qualcosa di esterno alla mente umana) guidano tutto l’impianto della conoscenza. In questo senso è forse da preferire un’altra versione della sentenza: «veritas est adaequatio intellectus ad rem» – «la verità è l’adeguamento dell’intelletto alla cosa».

È da preferire solo per la fase iniziale della conoscenza, perché riconoscere alle cose esterne alla mente umana (Dio e la creazione) il privilegio sulla verità non significa che l’uomo sia una semplice macchina da ricezione. Se infatti l’uomo si umilia, la sua immagine e somiglianza con Dio lo pone come soggetto d’invenzione e di creazione.

Quando, allora, la mente è superba, si dirà che si deve adeguare alle cose – e, nel caso non si adeguasse, non avrà accesso alla verità. Quando invece si è umiliata, si dirà che il vero è l’adeguamento tra le cose e l’intelletto. Sembra che speculazioni attorno all’«adaequatio rei et intellectus», prima di san Tommaso d’Aquino e della Scolastica medievale, abbiano la paternità in Isaac Israeli ben Solomon (secoli IX-X) o in Avicenna (secoli X-XI), entrambi commentatori di Aristotele[3]. Solomon e Avicenna: ovvero il pensiero ebraico e arabo, non certo cristiano cattolico.

La cosa non è per nulla strana, perché l’accesso giusnaturalista[4] alla morale è assai precedente al Medioevo cristiano: è sufficiente menzionare i pagani Platone, Aristotele e Cicerone, tra i maggiori studiosi dell’etica. E proprio Cicerone scrive:

«In realtà vera legge è la retta ragione in accordo con la natura, diffusa in tutti, costante, sempiterna, che eventualmente richiami al dovere ordinando, vietando allontani dal delitto. E tuttavia non ordina o vieta invano agli onesti, e non smuove i disonesti ordinando o vietando. Per questa legge non è lecito essere abrogata, né si può derogare qualcosa da questa, né può essere interamente cassata, nemmeno possiamo essere liberati da questa legge per [decreto del] senato o del popolo […]»[5].

Anche solo nella prime parole ciceroniane, si può rinvenire che «vera legge è la retta ragione in accordo con la natura», che non è altro se non un diverso modo di esprimere l’«adaequatio rei et intellectus»: la vera legge di Cicerone è la «veritas», la retta ragione è l’«intellectus», la natura è la «res» (in quanto la natura umana è qualcosa di oggettivo ed esterno, donato all’uomo) e l’accordo è l’«adaequatio».

Ma di che ragione parlava Cicerone? Di quella del singolo o della ragione umana in generale? Se il singolo si esprime e compie azioni secondo verità, allora si parla proprio della sua ragione, altrimenti l’orizzonte è universale. Dirà infatti san Tommaso d’Aquino: «La ragione corrotta non è veramente ragione, così come propriamente parlando un sillogismo falso non è un sillogismo; è per questo che la regola degli atti umani non è una ragione qualunque, ma la retta ragione»[6]. E quindi la retta ragione è «regola» in generale ma, quando il singolo conforma la propria ragione ad essa, si fa particolare e individuata.

È proprio il conformarsi del singolo alla retta ragione universale che esprime l’umiltà della mente che si eleva a Dio – «itinerarium mentis in Deum»[7]. I pagani, tra cui Cicerone, potevano solo intuire che la conformità alla natura umana è, in sostanza, conformità a Dio e alla sua legge, poiché a fondamento dello ius naturale c’è la legge divina. Non la legge degli antichi dèi di Roma o di Atene, ma dell’unico Dio che si è rivelato. E tuttavia, proprio per il fatto che anche i pagani riconoscono l’esistenza di una legge naturale, non è irrazionale né immotivato supporre l’esistenza di una comune natura umana, che è l’essenza dell’umanità, così come di ogni singolo uomo.

Non può quindi non esserci alla base di ogni azione umana, per l’accesso alla verità (ragione pura) e alla salvezza (ragione pratica), il preliminare atto di umiliazione e di conformazione allo ius naturale della retta ragione. Questo perché la conoscenza della ragione umana non è perfetta: ci sono cose facili da capire («non uccidere») o difficili («non desiderare»), ma ci sono anche cose che non si possono capire fino alla fine dei tempi («non commettere adulterio», «non commettere atti impuri»). Anzi, proprio sull’amore e sul sesso il Creatore ha posto un velo di mistero impenetrabile. Il solo tentativo di distruggere il velo porta alla certezza del fallimento.

Dice la ragione umana, che si vuole giustificare: perché tanto rigore? Come posso resistere alle fiamme dell’innamoramento? La mia responsabilità nell’adulterio non è forse attenuata dal fatto che mi sono innamorato di un’altra donna o di un altro uomo? Sono forse io colpevole di essermi innamorato? Perché non posso commettere atti omo-erotici? Perché non posso commettere atti auto-erotici? E dov’è, in tanto rigore, lo spazio dell’affetto, del sentimento, della tenerezza, pur benedetti da Dio? Non c’è nessuna risposta puramente logica a queste domande e non ce ne sarà fino alla morte, se non per alcune anime particolari e benedette, a cui Dio voglia svelare qualcosa in più. Ed è proprio su questi dubbi che è richiesto il massimo impegno del penitente verso la mortificazione spirituale e corporale.

Se nel caso dell’omicidio è semplice alla mente aderire alla retta ragione (non però quando un accesso d’ira porta al delitto), nel caso del sesso è richiesta una grande fatica e il rinnegamento di ogni atteggiamento superbo. Non solo, ma è necessario il supporto della grazia (e della fede), senza la quali è impossibile rimanere nella castità celibataria e matrimoniale. Non difficile, ma impossibile.

Basta uno sguardo sconveniente per contravvenire al sesto comandamento. È Dio stesso a confermarlo: «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore»[8]. E comunque, a parte il sesso, la rettitudine della ragione non è mai scontata e richiede – lo si vede con chiarezza – non soltanto doti logiche, ma soprattutto «affettive», nel senso dell’«affectus» bonaventurano[9]. L’uomo cioè ha la vocazione a tralasciare affetti e sentimenti umani, per sostituirli (o almeno affiancarli) con l’«affezione» verso Dio, verso la verità.

La logica è importante, ma nel campo dell’etica non basta: secondo san Bonaventura «occorre che la scienza e l’azione si congiungano nella forma “affettiva”, cioè bisogna che l’intelletto susciti l’amore (prout extenditur ad affectum), così che si ottenga la sapienza, la quale comprende insieme “la conoscenza e l’amore” (simul dicit cognitionem et affectum[10]. In questo senso, l’amore di Dio è tutto ciò che è significato dal sostantivo «affetto»: attrazione compulsiva, intenzione (non è un caso che la conoscenza sia intenzionale), malattia, commozione, impressione, gelosia, passione – θαῦμα (thaûma, forte senso di affezione atterrita, sbalordita, meravigliata).

Giovanni Paolo II, nell’enciclica Fides et Ratio, è abbastanza accurato nel descrivere la retta ragione: «Quando la ragione riesce a intuire e a formulare i principi primi e universali dell’essere e a fare scaturire rettamente da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi, orthòs logos, recta ratio»[11]. Anche qua si scorge il primato dell’umiltà, poiché i principi universali dell’essere sono oggettivi.

Quando invece, scrive Karol Wojtyła, l’uomo superbo non umilia la propria ragione, egli «s’espone al rischio del fallimento e finisce per trovarsi nella condizione dello “stolto”»: questa ostinazione «gli impedisce di ordinare con rettitudine la sua mente (cfr Pro 1, 7) e di assumere un atteggiamento [affectum] retto nei confronti di se stesso e dell’ambiente circostante»[12]. Per questo motivo «una ragione purificata e retta» è «in grado di elevarsi ai livelli più alti della riflessione, dando fondamento solido alla percezione dell’essere, del trascendente e dell’assoluto», fermo restando che il discorso non si riduce alla filosofia, ma «la teologia morale deve ricorrere ad una retta visione filosofica, della natura umana, della società, e dei principi generali di una decisione etica»[13].

Silvio Brachetta


[1] È «la ragione (pratica) informata dalla legge divina o dai principi dalla “legge naturale” abitualmente presenti nella “sinderesi” e perfezionata dalla virtù della prudenza», Joseph de Finance, Etica generale, Editrice Pontificia Università Gregoriana, 1997, p. 174.

[2] Sentenza della Scolastica medievale; p. es. in san Tommaso d’Aquino (De veritate) o in Bonaventura da Bagnoregio (Collationes in Hexaëmeron).

[3] Cf. p. es. Bruno D’Amore, Silvia Barbagli, La matematica e la sua storia. II. Dal tramonto greco al medioevo, Edizioni Dedalo, 2018, p. 229.

[4] Il giusnaturalismo, detto anche ius naturale (diritto di natura) è il riconoscimento di una norma universale e superiore alle leggi positive, che si fonda sulla natura umana.

[5] «Est quidem vera lex recta ratio naturae congruens, diffusa in omnis, constans, sempiterna, quae vocet ad officium iubendo, vetando e fraude deterreat; quae tamen neque probos frustra iubet aut vetat nec improbos iubendo aut vetando movet. Huic legi nec abrogari fas est, neque derogari aliquid ex hac licet neque tota abrogari potest, nec vero aut per senatum aut per populum solvi hac lege possumus […]», Marco Tullio Cicerone, De re publica, lib. III, n. 33.

[6] In II sent., d. 24, q. 2, a, 3.

[7] San Bonaventura da Bagnoregio, libro omonimo.

[8] Mt 5, 28.

[9] Cf. p. es. Inos Biffi, L’intelligenza non basta, «L’Osservatore Romano», 15/07/2009.

[10] Ivi.

[11] Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Fides et Ratio, 14/09/1998, n. 4.

[12] Ibidem, n. 18.

[13] Ibidem, nn. 41, 68.

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