[Estratto da “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa, anno XVII (2022) 1, dal titolo “Il credo mondano di oggi. Un decalogo da confutare” – Vedi l’indice e le modalità di acquisto qui]

 

La questione della verità, per il giornalista, non è solo legata a un convincimento interiore o alla sensibilità religiosa, ma è stata anche codificata da leggi civili. In Italia, l’ordinamento della professione dei giornalisti è regolata da una legge dello Stato[1] che impone l’«obbligo inderogabile» al «rispetto della verità sostanziale dei fatti»[2]. Il legislatore – non il filosofo, non il sacerdote – fonda quindi la norma su tre affermazioni precise: esistono i fatti oggettivi; esiste la sostanza fattuale; esiste la verità della sostanza fattuale. Secoli d’illuminismo, d’idealismo e di razionalismo non sono riusciti a scalfire il convincimento di fondo di chi deve normare la società civile, ossia che tutta la realtà poggia su tre concetti metafisici: fatto, sostanza, verità.

Ancora più sorprendente è l’obbligo successivo, imposto dal legislatore: «Devono essere rettificate le notizie che risultino inesatte e riparati gli eventuali errori»[3]. Inesatte rispetto a cosa? Errori rispetto a cosa? Il legislatore ammette e impone un riferimento fisso – noto o ignoto, visibile o nascosto, riconoscibile o mascherato – dietro la realtà e perno della realtà, a cui le parole devono essere riferite e, dopo questa comparazione, riconosciute come vere o false. Eppure il legislatore si è formato, in genere e come tutti, alla scuola repubblicana gentiliana, erede della scuola risorgimentale, istituita su basi idealistiche. Non si è formato dai gesuiti o in una qualche accademia platonica. Quando si va sul tecnico, l’idealismo scompare. Il legislatore, così come il giudice, l’avvocato, il medico o l’architetto, non possono che capitolare davanti ai fatti: le cose sono queste e non cambiano. Se sei tu a farle sembrare diverse, devi rettificare, sei in errore.

Le notizie – dice la norma – devono essere «esatte». L’aggettivo «esatto» ha la sua radice nel latino «exigere», che significa «pesare», «esaminare», per cui esatto è ciò che è valutato come «conforme al vero»[4]. Il giornalista ha dunque il dovere primario di esaminare ciò che scrive, alla ricerca di una conformità tra le parole scritte e il fatto, vero nella sua sostanza. Che è poi null’altro della definizione classica di «verità», come «corrispondenza tra le cose e l’intelletto»[5].

Quarto potere

Sebbene le gazzette e i giornali si siano diffusi, in Europa, tra il XVI e il XVIII secolo, la stampa intesa come «quarto potere», cioè come mezzo di controllo della politica da parte dell’opinione pubblica, si forma a ridosso delle grandi rivoluzioni moderne: industriale, americana, francese e inglese. La stampa inglese del XIX secolo, in particolare, «si colloca accanto al parlamento, all’esecutivo e alla magistratura», in modo da «esercitare un vincolo sull’azione dei governi»[6]. Più che «quarto potere» (termine novecentesco), lo  storico inglese Thomas Babington Macaulay conia il termine «quarto stato». Scrive nel 1828, sulla Edimburgh review, che «la galleria dove siedono i giornalisti è diventata il quarto stato (the fourth estate) del regno»[7]. Il giornalismo, nella forma che conosciamo, è quindi uno dei frutti della modernità e si è sempre mantenuto in equilibrio tra due tensioni contrapposte: la ricerca della verità e la passione per le forme di pensiero moderne, spesso caratterizzate da un allontanamento dalla verità. Fin dall’inizio, proprio a motivo della questione sulla veridicità delle notizie o delle affermazioni, la stampa è stata soggetta al controllo della censura, sia da parte cattolica (censura ecclesiastica), sia da parte civile (censura politica).

In ogni caso la stampa, a parte le censure esterne, è rimasta sempre in perenne autocontrollo, per l’intrinseca omogeneità alla ricerca del vero, raggiunto o meno. La stessa figura moderna dell’intellettuale, esplode in ambito giornalistico, a seguito del «J’Accuse» di Émile Zola[8]. Con Zola, l’«intellectuel» degli illuministi diventa – almeno nelle intenzioni e, spesso, solo nelle intenzioni – un cercatore stabile della verità, specialmente contro l’ipocrisia della politica. In questo senso, l’intellettuale giunge alla verità nella misura in cui espone i fatti con precisione e li interpreta in conformità alla loro genuina sostanza. In molte occasioni l’intellettuale, ma pure il semplice giornalista, ha disatteso, se non tradito intenzionalmente, la verità dei fatti (nell’esposizione e nell’interpretazione) – o per l’inadeguatezza personale nei confronti della scrittura; o per un difetto di formazione, troppo legata a filosofie spurie (soprattutto idealismo, razionalismo e naturalismo); o per partito preso, cioè per l’appartenenza a gruppi di potere indifferenti alla questione della verità; o perché costretto dagli editori; o per l’intenzione di mentire; oppure anche per banali errori di osservazione o ragionamento.

Generalmente, ha fatto eccezione la stampa cattolica, almeno fino a tutto il XIX secolo, per l’evidente missione di presentare i fatti e d’interpretarli sotto la guida della Rivelazione e del magistero ecclesiale. Il fatto che la stampa cattolica, in epoca risorgimentale, sia stata sempre più osteggiata, spiega il suo caratteristico taglio apologetico.

Ipocrisia di Stato

Le cose cambiano radicalmente nel XX secolo, per ogni tipo di pubblicazione. Dai tempi pre-cristiani la vocazione dello scriba è sempre stata delicata, peculiare e difficile. Ma, dal Novecento ad oggi, lo scrittore è costretto a lavorare nell’epoca in cui, a livello culturale, è contestata l’esistenza stessa di una verità oggettiva, anche in seno alla stampa cattolica. Ad aggravare la situazione, in Italia, s’è imposta l’egemonia culturale di tutto un mondo formatosi sul pensiero di Antonio Gramsci, secondo cui – al di là della rivoluzione armata e politica – la classe dirigente avrebbe dovuto costituire una «direzione intellettuale e morale», per una formazione permanente dei cittadini, in senso socialista[9].

Si è approdati al concetto di «post-verità» («post-truth»), coniato nel 1992 dal drammaturgo Steve Tesich, secondo il quale i media americani avrebbero dato poco peso ai fatti del Medio Oriente e della prima guerra del Golfo. Il liberal Tesich, in realtà, accusava la gestione repubblicana Bush, ovvero la parte politica avversa alla sua e, anche in seguito, saranno i democratici ad accusare di menzogna gli avversari politici. Se invece consideriamo la post-verità come la cifra globale del mondo odierno dei media, l’espressione di Tesich è forse la più appropriata. In questo senso Marcello Veneziani ammette l’epoca della post-verità, ma ne indica la causa proprio in quel mondo liberal, anarchico o di sinistra che ha posto la gravità del problema. Fu durante il Sessantotto – scrive Veneziani – e non all’inizio degli anni Novanta, che «nacque la post-verità, cioè la verità a modo mio»: niente più «autorità, natura, merito», ma «tutto è come mi sembra»[10]. Forse nacque un po’ prima: nei totalitarismi del Novecento, nelle filosofie illuministe, nelle teologie riformate, nel modernismo cattolico, nella frattura tra fede e ragione.

Veneziani, piuttosto, parla di un paradosso tutto contemporaneo: coloro che, per primi, hanno rifiutato la fondazione metafisica della realtà, sono quelli che ora – con piglio fanatico – si dicono contro la post-verità. Chi ora attacca «la post-verità – filosofi, intellettuali, politici e giornalisti – sono gli stessi che nei loro scritti, nella loro militanza, nella loro professione, hanno sempre respinto ogni verità oggettiva, riconosciuta e universale»[11]. La verità, secondo questi seguaci di Gramsci, non è l’adeguamento dell’intelletto alla realtà dei fatti, ma null’altro che «le idee dominanti», ovvero «le idee della classe dominante»[12].

Il Novecento è il secolo in cui i giornalisti si sono formati a quella stessa scuola che ha plasmato la classe politica e i proprietari dei giornali. Sono figure oramai contigue che, oltre a qualche contrasto di facciata, non sanno più esprimere una posizione originale. Il giornalismo, quindi, non è più un quarto potere o un quarto stato, che supervisiona e denuncia gli errori degli altri tre, ma un potere del tutto omogeneo alla politica e alla cultura di massa. Vi sono molteplici eccezioni, ma i cronisti indipendenti subiscono un’incessante vessazione da parte del mainstream[13], per cui o vengono silenziati o vengono ignorati. È in corso, da decenni, la delegittimazione sistematica di ogni voce che legga i fatti in modo difforme da quello dei media più diffusi. Tra questi, anche diverse testate cattoliche.

Cecità sistematica

È stato completamente disatteso, tra l’altro, il magistero scaturito dal Concilio Vaticano II[14], che ha indicato, nell’introdurre il concetto di «dialogo», una delle prassi primarie del fedele cattolico e non. Al contrario, il periodo che va dagli anni Sessanta del XX secolo ad oggi è stato caratterizzato dalla crisi dialettica più grave forse dai tempi della Torre di Babele. Il dibattito è scomparso e sostituito con l’infinita polemica tra visioni contrapposte, che tradisce una povertà intellettiva diffusa e l’incapacità logica (e dunque dialogica) di sostenere una qualunque tesi. I singoli media si sono ridotti a diffusori di affermazioni caotiche, senza la capacità – razionale, linguistica, didattica – di poterle sostenere. L’incapacità dialogica si è tradotta in una serie di atteggiamenti anti-retorici: diffamazione, messa in ridicolo, petulanza, discussionismo inconcludente, astio ad oltranza, disistima, apatia, disinteresse, minaccia. Alla polemica, infatti, segue la rissa.

Il dibattito è ora rimpiazzato dalla crociata ideologica, di cui la più diffusa è quella contro la post-verità, promossa non da chi denuncia la stratificazione di decenni di menzogne, ma dall’alleanza tra i mass media e il potere politico. Non è il quarto potere a denunciare la post-verità, perché il quarto potere o non esiste o è ridotto al silenzio. Paradossalmente è il mainstream ad arricchire la polemica di nuovi lemmi: fake news, bufale, disinformazione. È una crociata grottesca, promossa da chi ha sempre contestato la verità oggettiva, da chi si è formato nel laicismo ateo o nel cattolicesimo democratico.

Si vedono, dunque, i grandi media accusare di menzogna chi non si adegua alla diffusione e all’interpretazione unica delle notizie. È successo per la questione mediorientale (anni Novanta), per la crisi economica (dal 2008), per le tematiche legate alla vita e alla famiglia (aborto, fivet, omosessualità, eutanasia) e, negli ultimi due anni, accade per via della pandemia da Covid-19. I grandi media o il potere politico, nella loro accusa, hanno il pretesto di Internet e presentano sempre, come prova, questo sillogismo: la protesta contro il mainstream si è spostata su Internet – Internet è un contenitore di menzogne (fake news) – quindi la protesta è una menzogna (post-verità).

Contro questa interpretazione è intervenuto, a sorpresa, Alessandro Baricco, scrittore formatosi ‘a sinistra’, sul mainstream «La Repubblica». Non sarà forse – scriveva anni fa – che «post-verità è il nome che noi élite diamo alle menzogne quando a raccontarle non siamo noi ma gli altri»?[15] E rincara: «Chi usa la parola post-verità tende a sottolineare come nel mondo del web» le menzogne «abbiano assunto una velocità, una forza e un coefficiente di penetrazione senza precedenti e che questo segnali appunto il passaggio a una nuova epoca». Baricco espone la «cecità spettacolare» delle élites: «chiunque capirebbe che una bufala al telegiornale quando il web non c’era […] era immensamente più efficace e veloce di una bufala lanciata oggi in rete: oltre tutto era molto più macchinoso smentirla o contrastarla».

Rieducazione dei giornalisti

La post-verità, insomma, non si cela dietro Internet, nonostante vi sia la presenza massiccia di menzogne mescolate a verità. Che il web sia un pretesto, lo si estrapola pure dalla presenza in rete di tutte le più importanti testate del globo, proprio quelle che criticano il giornalismo improvvisato e informatico, fonte di bufale e fake news. La cosiddetta crisi della carta stampata potrebbe entrarci poco con l’avvento dell’informatica. È più probabile che il lettore avverta in modo nuovo la sproporzione tra quanto legge e la realtà dei fatti. E si rivolge altrove, fosse anche al mondo caotico del web. Il lettore si accorge sì di una post-verità, ma la ritrova quotidianamente nello squallore dei programmi e dei notiziari televisivi e radiofonici o nelle pagine, tutte omologate, dei grandi quotidiani nazionali.

Che il giornalismo sia in forte crisi lo si capisce anche dall’istituzione, tutta italiana, dell’Ordine dei Giornalisti. A cosa dovrebbe servire? In teoria a quello che servono tutti i sindacati o le corporazioni e, cioè, a proteggere la categoria e il singolo da attacchi esterni o leggi ingiuste. Ma così non è. Nel 2014, ad esempio, è entrato in vigore l’obbligo di formazione dei giornalisti, tenuti a frequentare un certo numero di corsi di aggiornamento. L’Ordine non ha opposto la minima critica al comando governativo. Con obbedienza cieca, la sede centrale e tutte le sedi regionali si sono dotate di un sito web specifico, per un elenco dei corsi da proporre. Ci si sarebbero aspettati dei corsi utili all’apprendimento della professione: come si realizza un giornale, come reperire le fonti, come scrivere un articolo. Nulla di tutto questo.

La gran parte dei titoli dei corsi sono di questo tenore: “La crisi climatica e le nuove politiche energetiche”, “Lo sviluppo sostenibile oltre la pandemia”, “La nuova sfida del giornalismo democratico”, “Manifesto della comunicazione non O_Stile”[16]. Non solo l’Ordine non protegge il singolo da leggi inutili, ma lo costringe all’accettazione ideologica delle proposte formative. L’Ordine ha persino assecondato il piano della politica, che richiede ai giornalisti di cambiare il modo di parlare. Si tratta del succitato progetto contro le Parole O_Stili[17], per cui il giornalista è fortemente invitato ad usare un nuovo linguaggio inclusivo, in modo da «scegliere le parole con cura».

Il giornalismo, quello che un tempo fu il quarto potere, deve ora persino cambiare le parole, secondo le indicazioni dei primi tre ed unici poteri. È considerato ostile e offensivo riferirsi ai genitori come maschio e femmina, non indicare un’amicizia omosessuale come famiglia, indicare un uomo transessuale al maschile – e altre cose di questo tipo. In breve, il giornalista iscritto all’Ordine, nel nome dell’empatia e della pace, dovrebbe sempre parlare in modo acritico, dicendo agli altri quello che gli altri vogliono sentirsi dire. Dovrebbe, quindi, rinunciare all’apologetica, alla critica, al dibattito, alla confutazione, che sono gli strumenti base del letterato di ogni epoca.

In tutto questo c’è un tradimento non solo della schiettezza di Émile Zola, ma pure degli insegnamenti di Joseph Pulitzer[18], che avvertiva: «Una stampa cinica, mercenaria e demagogica, prima o poi, creerà un pubblico ignobile»[19]. Diversa, invece, è la vocazione del giornalista. Scrive Pulitzer nel merito: «Esprimi il tuo pensiero in modo conciso perché sia letto, in modo chiaro perché sia capito, in modo pittoresco perché sia ricordato e, soprattutto, in modo esatto perché i lettori siano guidati dalla sua luce»[20].

Silvio Brachetta

 

[1] Legge n. 69 del 03/02/1963: “Ordinamento della professione di giornalista”. È tutt’ora in vigore.

[2] Ivi, art. 2.

[3] Ibidem.

[4] O. Pianigiani, voce «Esatto», in Vocabolario etimologico della lingua italiana, Fratelli Melito Editori, La Spezia 1907.

[5] «Adaequatio rei et intellectus». P. es. Tommaso d’Aquino, De Veritate, q. 1, a. 2. Affermazione condivisa tra gli Scolastici, secondo la tradizione aristotelica.

[6] G. Gozzini, Storia del giornalismo, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. X (intr.).

[7] Ivi.

[8] Lettera al presidente della Repubblica (francese), a difesa di Alfred Dreyfus, pubblicata il 13 gennaio 1898 su «L’Aurore».

[9] Cfr. A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino 1948-1951, Q. 19, § 24.

[10] M. Veneziani, “La post-verità nacque nel ‘68”, «Panorama», aprile 2018.

[11] Id., “Post-verità e pre-falsità”, Introduzione a E. Perucchietti, Fake News, Arianna Editrice, Bologna 2019, p. 12.

[12] Ibidem.

[13] «Corrente principale». Si dice di qualunque produzione convenzionale dell’intelletto, che deve la diffusione al cieco consenso delle masse.

[14] Dal 11 ottobre 1962 all’8 dicembre 1965.

[15] A Baricco, “Perché questa definizione è infondata”, «La Repubblica», 30 aprile 2017.

[16] https://fpc.formazionegiornalisti.it, https://www.odg.fvg.it/lista-formazione.html/

[17] “Un progetto sociale di sensibilizzazione contro la violenza delle parole”, https://paroleostili.it/

[18] 1847-1911. Uno dei giornalisti più noti. In suo nome si assegna annualmente il Premio Pulitzer.

[19] J. Pulitzer, “The College of Journalism”, «The North American Review», 1904.

[20] Citato in «Selezione dal Reader’s Digest», giugno 1974.

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