Sull’enigma legato alla figura di Benedetto XVI era opportuno spendere qualche parola. La lunga parabola esistenziale di Joseph Ratzinger, nel bene o nel male, sembra rinchiudersi fra «tradizione e modernità», di cui al sottotitolo del libro di Stefano Fontana. Nato negli Anni Venti del secolo scorso, gli Anni Venti di questo secolo lo vedono ancora vivo e operante. E già qua c’è il mistero di una tempra eccezionale. Ma vi è un enigma centrale in Ratzinger: il papa emerito è riuscito o no a «far quadrare il cerchio» fra tradizione e modernità?

Cantagalli, Siena 2021, pp. 120, Euro 10,00

Il cardinale, il papa della centralità del Logos (e della verità), dei «principi non negoziabili», della Dominus Iesus, della «riforma nella continuità», del Discorso di Regensburg, è la stessa persona che ha difeso e riproposto la lettera del Concilio Vaticano II, la necessità del dialogo e, in particolare, del dialogo con la modernità, che ha assunto su di sé la mansuetudine roncalliana fine a se stessa, l’empatia con i papi del post-concilio e, soprattutto, con Giovanni Paolo II.

La parola «dialogo» non dev’essere fraintesa: nel caso dell’ultimo post-concilio non ha quasi mai avuto il significato di «dibattito», ma spesso quello dell’assunzione acritica della mentalità moderna da parte della Chiesa. Eppure Benedetto XVI ha sempre cercato di smarcarsi dall’assumere alcunché, specialmente se proveniente da quel cattolicesimo progressista, che ha detenuto l’egemonia per più di mezzo secolo. Il magistero di Benedetto XVI è sovrapponibile spesso a quello di Giovanni Paolo II, a partire dalla questione della fides et ratio, nel senso che Ratzinger, al pari di Wojtyła, ritiene che il «dogma cattolico» – come scrive Fontana – abbia «esigenze epistemiche», esigenze legate alla ragione. Non solo ma, in quanto autore, Ratzinger è sovrapponibile anche (per alcuni aspetti) ad altri autori antimoderni (Del Noce, Fabro, Gilson).

Quando, però, Ratzinger deve affrontare una qualche tematica già trattata dal Concilio Vaticano II, la situazione si ribalta e il suo pensiero sembra farsi moderno. Fontana indica alcune situazioni in cui il pensiero di Benedetto XVI appare contraddittorio. C’è una modernità, ad esempio, che piace a Ratzinger; e il cristiano dovrebbe «assumere tutto ciò che di buono c’è» in essa. Dovrebbe assumerne gli «elementi essenziali». È una modernità che esalta i diritti umani, che distingue tra rivoluzione francese (sempre inammissibile) e americana (ammissibile a certe condizioni). Questa forma di pensiero porta a credere che vi siano due tipi di illuminismo, l’uno giacobino, l’altro di supposta derivazione cristiana: è una contraddizione, a parere di Fontana, perché a qualsiasi illuminismo corrisponde una falsa precedenza dei diritti sui doveri.

Così pure quanto al liberalismo: Benedetto XVI porta a supporre l’esistenza di un liberalismo (e relativa tradizione liberale) accettabile, solo che esso confessi il Dio della religione cristiana. Ma il liberalismo è inaccettabile non soltanto se ateo, ma poiché pone la libertà a fondamento di tutto e prevede la libertà di una coscienza in grado di stabilire cos’è bene e cos’è male, secondo l’arbitrio del proprio giudizio.

Non c’è, allora, in Ratzinger il problema della centralità di Dio – espressa più e più volte, senza ambiguità – né una carenza nel riaffermare con forza l’esistenza di una natura umana e di una legge naturale, che dipende dal Creatore e dalla sua legge eterna. La carenza sta nel non portare la centralità di Dio al centro effettivo del mondo moderno, che non si esaurisce nell’ambito privato, ma che ingloba quello pubblico e sociale. Fontana, cioè, ha colto in Benedetto XVI un atteggiamento non del tutto chiaro. Il papa emerito a volte si esprime come se la Chiesa dovesse limitarsi a difendere «la legge morale naturale nella vita pubblica solo con interventi di tipo morale». Questo è necessario, ma non sufficiente.

Più volte Fontana ha detto e scritto che il piano naturale non può essere se stesso senza quello soprannaturale. Non basta, per la difesa dei ‘principi non negoziabili’ o per qualsiasi altra iniziativa, un intervento esterno della Chiesa, ma è fondamentale un «sostegno» effettivo «della religione nella sfera pubblica». La Chiesa deve quindi avere «un ruolo pubblico» e non dev’essere soltanto l’«animatrice di un’etica pubblica». Su questo, probabilmente, si sarebbe dovuto insistere con la stessa forza assunta nella difesa dei ‘principi non negoziabili’.

Stesso discorso si può fare per la laicità, che Ratzinger distingue in «illuminismo radicale» (da scartare) e «sana laicità» (da ritenere). La differenza c’è e va dichiarata, ma l’ammetterla non risolve la questione, poiché anche la sana laicità non riconosce alla religione una «ragionevolezza politica». Benedetto XVI non giunge a chiedere con forza – scrive Fontana – che la «religione vera» non possa «limitarsi alla formazione delle coscienze», ma debba anche animare «le leggi e le strutture» sociali. Non può farlo per via dell’adesione completa al principio della libertà religiosa, così com’è inteso dal Concilio Vaticano II.

Il pensiero di Benedetto XVI, quindi, grande e del tutto ortodosso in se medesimo, sembra però non concludersi. La sua grandezza – osserva Fontana – «sta nell’aver sviluppato la critica» alla «pretesa» della modernità, «senza però riuscire a chiudere la partita», ovvero senza spezzare in modo netto questa pretesa.

Silvio Brachetta

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