
All’interno di questa analisi a puntate dei cambiamenti in atto nella teologia morale cattolica [vedi QUI e QUI] ho potuto leggere il nuovo libro di Paolo Carlotti, salesiano e docente all’UPS di Roma, “La coscienza morale cristiana” (Las, Roma 2023, pp. 184) che, a mio modo di vedere, si colloca in una posizione “mediana” tra la nuova teologia morale, che ha accettato definitivamente la svolta antropologica, e la morale tradizionale, che ancora parla di natura e non solo di storia. Il testo di Carlotti fa numerose concessioni al nuovo, cercando tuttavia di mantenere qualche collegamento con l’antico.
Per esempio, presentando il quadro epistemologico in cui si colloca la teologia morale, l’Autore parla della necessità di un quadro “ordinato” e distingue tra discipline “descrittive” e “valutative”. Tra queste ultime egli colloca la filosofia e la teologia e afferma che la scienza si divide in speculativa e pratica, dando vita ad una filosofia pratica e ad una teologia pratica, che è appunto la disciplina di cui il libro si occupa. Come si vede, lo schema rivela una cerca “classicità” in quanto le scienze sociali ed umane rimangono circoscritte alle scienze descrittive, in una posizione subordinata rispetto ai saperi relativi al “senso”. La teologia morale oggi di moda non accetterebbe questo punto del quadro epistemico di Carlotti. Per di più egli precisa che “la ragione speculativa diventa pratica per estensione” (p. 26), richiamando così una fondamentale dottrina tomista[1].
Purtroppo, accanto a queste riprese dal tono classicheggiante, anche Carlotti cede al relativismo storicista dell’ermeneutica: “E tuttavia è ben noto che una neutralità interpretativa assoluta non è possibile, perché la conoscenza e quindi la scienza procedono dal soggetto umano, inevitabilmente interpretativo. Sic stantibus rebus, il modo migliore per ricercarla è quello che lo scienziato sia consapevole del proprio orizzonte ermeneutico” (p. 25). Anche Carlotti rimane prigioniero del “conflitto degli orizzonti” di Gadamer e, quindi, di Heidegger. Prospettiva questa che differisce sostanzialmente da quella della tradizione classica e cristiana. Alla fine, sembra di capire, anche Carlotti non ritiene possibile che l’intelletto conosca la forma specifica di una azione – del furto o dell’omicidio … indipendentemente dalle circostanze che caratterizzano la situazione. Su questo punto egli si allinea alla nuova teologia morale. Però, perché allora confermare che la ragione pratica è una estensione di quella teoretica? Questa tesi assegna un ruolo conoscitivo specifico e principale all’intelletto speculativo, che però poi Carlotti annega nell’ermeneutica.
Parlando del rapporto tra essenza ed esistenza, dopo aver preso posizione sulla “storicità come costitutivo antropologico”, Carlotti ha quantomeno il merito di non eliminare l’essenza per ridurla senza ritegno ad esistenza, però concede troppo alla nuova teologia morale quando dice: “solo un rapporto essenza-esistenza appreso come storicità può rendere plausibile la rilevanza del decidere morale in ordine alla costituzione dell’identità della persona, che non è appunto data a prescindere dalla sua esistenza e dalle scelte in essa operate” (p. 36). Infatti, continua Carlotti, “se l’esistenza è semplice esplicazione dell’essenza, le scelte operate nell’esistenza hanno conseguentemente scarsa rilevanza” (Idem). Qui, a mio parere, non si tiene conto che il rapporto tra essenza ed esistenza non può non prevedere il primato dell’essenza, dato che ad esistere deve essere qualcosa o qualcuno. Come scriveva Cornelio Fabro, “perché il soggetto possa o non possa, occorre che il soggetto sia già qualcosa e una tal cosa a cui appunto compete il potere o il non potere, cioè quella cosa che è appunto la natura umana”.[2] L’ente così costituito esiste, è posto nell’esistenza come suo aspetto presenziale, ma come essenza incarnata, la precede e la costituisce. Ciò non significa che l’esistenza sia solo una “esplicazione” dell’essenza, come dice il nostro Autore, né che essa non possa produrre delle conseguenze per l’essenza, né San Tommaso e la metafisica cristiana hanno mai sostenuto questo. Il punto è che il piano ontologico è distinto dal piano esistenziale e non ammette nemmeno un equivoco rapporto inteso come “storicità”, che molto concede allo storicismo moderno. Del resto, se si esaminano gli “elementi del costitutivo antropologico” elencati ed illustrati da Carlotti nelle pagine successive, ci si rende conto che essi derivano tutti dall’essenza e non dall’esistenza: la capacità di sé (pp. 37-39), l’unità di anima e corpo (pp. 39-42), l’inter-personalità (pp. 42-46), la trascendenza (pp. 46-49) sono costitutivi essenziali e, solo derivatamente, esistenziali. La finalità, che guida l’esistenza, è nell’essenza.
I riferimenti impliciti alla morale tradizionale sono molti nel libro, anche se indicati con nomi diversi. Così, a pagina 79 di fatto Carlotti parla della Sinderesi, ma non la chiama così bensì “coscienza fondamentale e permanente”, distinguendola da una “coscienza attuale o situazionale”, ove però l’aggettivo “situazionale” rinvia a pericolose sfumature della teologia morale contemporanea.[3] Nel complesso, però, essi si annebbiano, pur senza estinguersi, perché il nuovo paradigma finisce per deformarli.
Stefano Fontana
Vedi i precedenti interventi della stessa serie
La rivoluzione in corso della Teologia morale cattolica -1
La rivoluzione in corso della Teologia morale cattolica -2
[1] S. Th., I, q. 79, a. 11, ad primum; J. Pieper, La realtà e il bene, 1949, Morcelliana, Brescia 2011, p. 62.
[2] C. Fabro, Tra Kierkegaard e Marx, Vallecch, Firenze 1952, p. 236.
[3] Cfr. A. Poppi, La Situationethik e i nuovi problemi della coscienza cristiana, in Id., Etiche del Novecento. Questioni di fondazione e di metodo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1993, pp. 65-93.


Stefano Fontana
Direttore dell'Osservatorio Card. Van Thuận