
Il 3 aprile scorso abbiamo pubblicato un commento di Stefano Fontana [vedi QUI ]alla recente Nota congiunta di due Dicasteri pontifici sulla “dottrina della scoperta” e, più in generale, sulle ingiustizie nei confronti degli indigeni dell’America. Tale documento sembra non tenere conto della complessità generale della problematica e di sacrificare la completezza ad esigenze pastorali forse non ben ponderate. A proposito del tema della giustizia nei confronti delle popolazioni indigene, pubblichiamo qui uno stralcio dell’articolo del Prof. Luis Martínez Ferrer, pubblicato nel nostro “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa”, XVIII (2022) 2, pp. 54-59 [vedi QUI].
La lotta per la giustizia in America
Nel 1949 lo statunitense Lewis Hanke scrisse un’opera che ha fatto epoca: The Struggle for Justice in the Conquest of America. Voleva segnalare che, sebbene nel Nuovo Mondo gli Spagnoli – alcuni Spagnoli, sia laici che ecclesiastici – avessero commesso gravissimi soprusi nei confronti degli Indios – in modo particolare delle donne –, altrettanto seria fu la reazione profetica di denuncia davanti alle autorità locali e centrali della Monarchia.
È condivisa la posizione che situa il primo colpo di scena di questa lotta per la giustizia nel sermone di Avvento del 1511 del domenicano Antonio Montesinos all’Isola Spagnola, nei Caraibi. Parafrasando san Giovanni Battista, il predicatore si rivolgeva così ai notabili e proprietari dell’isola:
«Tutti siete in peccato mortale […] a causa della crudeltà e tirannia con cui trattate questa gente innocente. Dite: con che diritto, con quale giustizia tenete in così orribile schiavitù questi Indios? Con quale autorità avete mosso sì detestabile guerra a queste genti, che se ne stavano mansuete e pacifiche nelle loro terre, dove tante ne avete distrutte con stragi e morti inaudite? Come li tenete così oppressi e affaticati, senza dar loro da mangiare, senza curarli nelle malattie nelle quali incorrono e muoiono per gli eccessivi lavori che gli date, o per meglio dire, li uccidete ogni giorno per estrarre e avere oro? Quale cura avete che qualcuno li istruisca e possano conoscere il loro Dio e creatore, siano battezzati, ascoltino la messa, osservino le feste e le domeniche?».
E proseguiva, senza timore: «Non sono essi uomini? Non siete obbligati ad amarli come voi stessi? Non capite? Non sentite? Come potete stare addormentati in tanta profondità di sonno così letargico? Abbiate per certo che, nello stato in cui siete, non potete salvarvi»[1].
Era l’inizio della lotta fra le forze della verità e della giustizia, portata avanti da Spagnoli, contro i soprusi e angherie che portavano avanti altri Spagnoli. Fu una autocritica che portò a figure stellari come Bartolomé de Las Casas, che riuscì diverse volte a convincere la Monarchia ad emanare nuove leggi, o quella del teologo domenicano Francisco de Vitoria, fondatore del Diritto delle genti nella cattedra di Teologia a Salamanca. E le polemiche arrivarono a Roma: il Papa Giulio III, grazie anche a un memoriale del vescovo di Tlaxcala, Julián Garcés, emanò la celebre bolla Sublimis Deus, del 2 giugno 1537 (collegata con il documento Veritas ipsa). In questa dichiarava solennemente la natura e dignità umana dei popoli originari dell’America e, conseguentemente, il diritto di proprietà e di dominio, a prescindere dal fatto di essere battezzati o meno. E insiste sulla strada dell’evangelizzazione pacifica, unico metodo degno della persona umana:
«Noi, dunque, che, sebbene indegni, facciamo sulla terra le veci di Nostro Signore, e che con ogni sforzo cerchiamo di portare nel suo ovile le pecore del suo gregge che ci sono state affidate e che sono fuori dal suo ovile, prestando attenzione agli stessi Indigeni, che, da veri uomini quali sono, non solo sono capaci di ricevere la fede cristiana, ma che, come ci è stato comunicato, corrono con alacrità verso la stessa. E volendo provvedere a ciò con opportuni rimedi, avvalendoci dell’Autorità Apostolica, stabiliamo e dichiariamo con le presenti lettere che i detti Indigeni, e tutti i popoli che in futuro potranno venire a conoscenza dei Cristiani, sebbene vivano al di fuori della fede cristiana, possano usare, possedere e godere liberamente e lecitamente, possedere e godere liberamente e legittimamente della loro libertà e del dominio delle loro proprietà, che non devono essere ridotti in servitù e che tutto ciò che sarebbe stato fatto altrimenti è nullo, [dichiariamo inoltre] che i suddetti indiani e gli altri popoli devono essere invitati ad abbracciare la fede di Cristo con la predicazione della Parola di Dio e con l’esempio di una buona vita»[2] .
Comunque, questo tipo di evangelizzazione pacifica era stato praticato tra i moriscos (musulmani ormai inseriti nella Monarchia spagnola) dell’antico Regno di Granada nell’epoca del suo primo arcivescovo, Hernando di Talavera (1493-1507), che era stato confessore della regina Isabella. Non mancarono critiche al Talavera, che fu sempre persona di dialogo e comprensione.
La lotta per la giustizia si librò in America negli organi della Monarchia sia a livello locale che centrale, soprattutto il cosiddetto Consiglio delle Indie. Le legislazioni civile ed ecclesiastica si svilupparono a partire dai modelli bassomedievali: per il mondo civile spiccano Las Partidas di Alfonso X il Saggio, per quello ecclesiastico il Corpus Iuris Canonici. Si trattava di costruire la giustizia in un mondo plurale con tre radici antropologiche: Europei, Indigeni, Africani. Presto si arrivò a una società fatta di Indigeni, Meticci, Spagnoli, Creoli, Neri, Mulatti, ecc.
Soltanto con riferimento agli afroamericani, le sfaccettature sono tante. Non tutti venivano prelevati dalla stessa regione africana. Alcuni riuscivano a parlare in spagnolo – a volte chiamati ladinos –, altri no – sopranominati bozales –. Alcuni riuscivano a ottenere la libertà per legato testamentario o auto-acquisto – chiamati a volte horros – mentre altri rimanevano schiavi, ma in condizioni molto diverse tra loro: non era lo stesso entrare nel servizio domestico di una famiglia urbana e lavorare in una piantagione. Si può notare, ad esempio, che nella seconda metà del XVI secolo la comunità di neri liberi della Città del Messico soffriva di più che non gli schiavi impiegati nelle case spagnole; per accudire ai bisogni di questi neri liberi il medico spagnolo Pedro López (1521- 1597) fondò l’ospedale dei Derelitti (Desamparados), e cercò di promuovere una confraternita in questo gruppo sociale particolarmente fragile.
D’altra parte, gli Afroamericani erano inseriti nelle strutture giuridiche e amministrative della Monarchia, alla quale potevano presentare le loro lagnanze o richieste. Conosciamo il caso dello schiavo Domingo Gelofe, che nel 1536 elevò al Consiglio delle Indie la sua richiesta di liberazione, sostenendo che era stato schiavizzato ingiustamente, giacché era cristiano. La stessa rivendicazione venne fatta nel 1614 a Cartagena delle Indie (oggi Colombia), da un altro africano schiavo, Francisco Martín, che affermava essere fatto schiavo posteriormente al proprio battesimo.
È interessante considerare che i tribunali spagnoli diedero ragione sia a Domingo Gelofe che a Francisco Martín, che furono dichiarati liberi. Al di là della considerazione della ingiustizia della schiavitù, sta di fatto che queste due persone di colore poterono adire e vincere in una causa davanti alla giustizia spagnola[3] .
Luis Martínez Ferrer
Pontificia Università della Santa Croce, Roma
[1] Traduzione italiana cit. da Reginaldo Iannarone, La scoperta dell’America e la prima difesa degli indios: i Domenicani, ESD, Bologna 1992, pp. 99-100.
[2] Cit. da Lewis Hanke, La lucha por la justicia en la conquista de América, Madrid 1988, pp. 111-112.
[3] Cfr. Chloe L. Ireton, Black Africans’ Freedom Litigation Suits to Define Just War and Just Slavery in the Early Spanish Empire, in «Renaissance Quarterly» 73/4 (2020), pp. 1277-1319.

Luis Martínez Ferrer
Pontificia Università della Santa Croce, Roma