Venerdì 27 gennaio papa Francesco ha ufficialmente inaugurato il nuovo anno giudiziario del Tribunale della Rota Romana. La Sala Clementina del Palazzo Apostolico ha così ospitato il Sommo Pontefice, i prelati uditori e tutti coloro che svolgono funzioni nell’amministrazione della giustizia presso il tribunale ordinario di appello (can. 1443).

Come è consuetudine, il discorso del Santo Padre ha avuto ad oggetto il sacramento del matrimonio, concentrandosi in particolar modo sulla sua essenza, sul suo essere una «realtà con una precisa consistenza».  Realtà naturale elevata da Cristo Signore alla dignità di sacramento, come ci ricorda il canone 1055.  Nel sacramento del matrimonio, osserva il Papa, «la fedeltà coniugale poggia sulla fedeltà divina» e «la fecondità coniugale si fonda sulla fecondità divina».

Il libero consenso dell’uomo incontra la volontà Divina di donarsi, e da questa armoniosa e sovrannaturale congiunzione sorge «la realtà permanente del matrimonio come vincolo». A tal proposito risulta particolarmente felice l’auspicio rivolto dal Papa affinché si riscopra e si promuova una rinnovata «pastorale del vincolo», fondata sulle due proprietà essenziali del matrimonio, che sono l’unità e l’indissolubilità (can. 1056).

Particolarmente felice anche perché l’importanza di una retta pastorale fondata ed informata di assoluti è garanzia di stabilità anche per la società civile, giacché «la visione cristiana della società politica conferisce il massimo rilievo alla comunità, sia come modello organizzativo della convivenza sia come stile di vita quotidiana» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 392).

La comunità per sua essenza è ligata, cioè congiunta da vincoli che la plasmano e la orientano. Per tale motivo, la prima a beneficiare di una corretta “pastorale del vincolo”, è proprio la comunità politica, oltre che la famiglia. Non dimenticando, peraltro, che i vincoli dell’unità e dell’indissolubilità del matrimonio sono realtà di ordine naturale, che «in ragione del sacramento […] conseguono una peculiare stabilità» (can. 1056).

Questo aspetto, oltre a stimolare delle riflessioni, getta nuova luce sulla reale portata di quanto accadde nell’ottobre del 1964, allorquando l’assise conciliare affrontò il tema del matrimonio e della famiglia, determinando un nuovo orientamento rispetto a quello che sino ad allora aveva assunto il Magistero costante della Chiesa.

Riandando indietro negli anni, possiamo affermare con certezza che fu il cardinale Suenens (1904-1996) arcivescovo di Malines-Bruxelles nonché primate del Belgio, tra i primi ad inaugurare una nuova concezione della morale matrimoniale. Paolo VI aveva all’uopo incaricato una apposita Commissione di affrontare il tema, sotto consiglio dello stesso porporato. Durante un appassionato intervento, il primate belga pose direttamente il problema, in questi termini:

«Può darsi che abbiamo accentuato la parola della Scrittura: “Crescete e moltiplicatevi” fino al punto di lasciare nell’ombra l’altra parola divina: “I due saranno una carne sola”. […] Spetterà alla Commissione dirci se non abbiamo sottolineato troppo il fine primo, che è la procreazione, a scapito di una finalità altrettanto imperativa, che è la crescita dell’unità coniugale».

Poco dopo il cardinale Suenens motivava tale necessità in ragione dell’apporto «dei nuovi dati della scienza di oggi». I “nuovi” dati della scienza di “allora” subivano l’influenza dell’ideologia malthusiana, ponendo come emergenza da affrontare l’esplosione demografica e l’improvviso sovrappopolamento di vaste aree della terra.

Destarono particolare sconcerto le parole conclusive del suo intervento: «Seguiamo il progresso della scienza. Vi scongiuro, Fratelli. Evitiamo un nuovo “processo Galilei”. Uno ne basta alla Chiesa».

Se tra i suoi più entusiasti sostenitori, nonché fra i primi a congratularsi con lui, vi fu l’arcivescovo brasiliano mons. Hélder Pessoa Câmara (1909-1999), dalle labbra del cardinale irlandese Michael Brown (1887-1971), già Maestro generale dell’Ordine dei Predicatori, rifulse in maniera adamantina la concezione matrimoniale tradizionalmente sostenuta dal Magistero ecclesiastico.

«Il fine primario, fine primario dell’opera […] è la generazione e l’educazione dei figli.

Il fine secondario è duplice: a) l’aiuto reciproco, o i servizi reciprochi che si rendono gli sposi nella società domestica; b) il rimedio alla concupiscenza.

Ma, si dice, bisogna anche dare un posto all’amore coniugale. Senza dubbio, ma per accordargli un posto bisogna distinguere tra l’amore di amicizia, secondo il quale una persona vuole e procura un bene a un suo amico come a un altro, e l’amore di concupiscenza, secondo il quale essa vuole e procura un bene a se stessa».

Tale distinzione consente al porporato irlandese di ricordare che “l’onestà” matrimoniale si regge su un equilibrio molto labile. Affinché resti sempre saldo nelle menti e nei cuori dei coniugi, è sufficiente, nonché necessario, «prestare attenzione ai cosiddetti beni del matrimonio, che sono la generazione e l’educazione della prole, la fedeltà che si conserva rendendo il dovuto coniugale e il sacramento mediante il quale la vita coniugale, già onesta sul piano naturale, è resa santa» (le citazioni sin qui riportate sono tratte da R. de Mattei, Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, 2010, pp. 418-422).

L’inversione delle finalità del matrimonio, subordinando il fine procreativo a quello unitivo, ha avuto l’effetto di rendere il matrimoniale foedus, il patto matrimoniale maggiormente esposto ai rischi dovuti alle sensibilità e volubilità dei coniugi.

Quando il cardinal Brown, rievocando l’insegnamento tradizionale della Chiesa, radica l’onestà matrimoniale nella generazione e nell’educazione della prole, nella fedeltà e nella realtà del sacramento, egli intende innanzitutto radicare il patto matrimoniale su basi naturali e indissolubili, coronate dal sigillo sacramentale.

Per poterlo fare però è necessario ricordare e sancire il primato dell’amore di amicizia rispetto all’amore di concupiscenza, aspetto implicitamente garantito dalla corretta gerarchia dei fini tradizionalmente insegnata dal Magistero.

Non si può dire altrimenti della posizione ad essa contraria, che è finita col prevalere.

Non a caso, già pochi anni dopo, fu lo stesso cardinal Suenens a guidare l’opposizione alla contestatissima enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, che dichiarò l’illiceità dei metodi di regolazione delle nascite (aborto, contraccezione, sterilizzazione).

Del resto, ciò si rende particolarmente evidente se vi si sofferma qualche istante.

Infatti, laddove il fine unitivo assurge a criterio e regola di quello procreativo, è facile che il benessere psico-fisico dei coniugi possa finire col prevalere rispetto alla missione principale e alla ragione fondante del totius vitae consortium (comunità di tutta la vita), che è per l’appunto quella di rendersi aperti alla generazione e alla educazione della prole, esito naturale dell’atto specifico che rende il matrimonio consumato, cioè portato effettivamente a pienezza.

Il fatto che il Papa abbia sottolineato l’importanza e persino l’urgenza di riscoprire una pastorale del vincolo è cosa di per sé positiva, nonché auspicabile. Tuttavia, senza l’indicazione e il ristabilimento della corretta gerarchia dei fini, si corre il rischio che il “vincolo” a cui dovrebbe tendere la pastorale divenga sempre più a geometria variabile.

Con una ricaduta devastante per ciò che riguarda lo stato di salute della comunità politica e della società, come del resto è possibile constatare facilmente. Se si intende assumere realmente la «dimensione familiare come prospettiva, culturale e politica, irrinunciabile nella considerazione delle persone» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 254) bisogna anzitutto che si faccia chiarezza in ordine alla corretta gerarchia delle finalità matrimoniali.

Diego Benedetto Panetta

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Diego Benedetto Panetta

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