[Nota redazionale] Nei giorni scorsi avevamo annunciato l’imminente uscita in Italia, per i tipi delle Edizioni Cantagalli, del libro di Chantal Delsol “La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo”, riservandoci di tornare a parlarne in seguito, poiché la sua tesi non ci risultava accettabile (QUI). Oggi pubblichiamo una nostra traduzione dal francese (QUI) di una recensione all’edizione originale del libro pubblicata su “Catholica”, diretta da Bernard Dumont. Domani pubblicheremo un commento al libro della Delsol del nostro direttore.

Dopo dieci anni di lavoro per una tesi di dottorato redatta sotto l’egida di Julien Freund – Tyrannie, dictature, despotisme: problèmes de la monocratie dans l’Antiquité – Chantal Delsol ha orientato la sua passione speculativa verso il pensiero della città contemporanea, nel solco di Hannah Arendt [1]. Ne condivide la denuncia dei sistemi totalitari e il gusto delle sintesi, senza eguagliarne però la pertinenza. Il suo modo di tendere alla verità e nello stesso tempo di dubitare del suo prestigio conduce questa “liberale-conservatrice” – come essa stessa dichiara di essere – a trovare nell’agnosticismo relativista un inatteso fascino, creatore di una ben incerta sicurezza.

Cresciuta con un’educazione cattolica dell’ambiente privilegiato lionese, questa osservatrice dei nostri simili e dei loro tropismi offrirà un fedele sostegno a cruciali scelte sociali, quali il rifiuto del matrimonio per tutti, o la denuncia del crollo generale del livello scolastico. Sotto l’influenza del padre biologo e maurrassiano, ella aderisce al quadro religioso della sua formazione, non crede nei prometeici, ma rivendica una demiurgia da spirito libero. L’alto livello intellettuale dei suoi lavori e l’invidiabile carriera di professore universitario in vari atenei nel 2009 le valsero l’elezione nell’Académie des sciences morales et politiques. Disponendo di un notevole prestigio negli ambienti cattolici assolutamente intenzionati a restare tali, ci si chiede se quest’illustre accademica possa avanzare il diritto di conservare questo pubblico senza esserne fatta oggetto di qualche critica. L’eccellente accoglienza che ha ricevuto questa Fine della Cristianità non solo stupisce, ma è anche piuttosto scioccante, se si considera che, qui, questo dramma di società senza precedenti è sia confermato come una sanzione storica senza appello, che de-drammatizzato nelle sue conseguenze prevedibili. Cos’è la Cristianità? «Si tratta della civiltà ispirata, ordinata, guidata dalla Chiesa» (p. 7 dell’edizione italiana. Anche per le prossime citazioni rimandiamo a questa edizione). Essa è durata sedici secoli, dall’Editto di Milano alla depenalizzazione dell’IVG. Ormai è defunta, per aver stancato i popoli che animava. Cos’è successo? «Avevamo profanato l’idea di verità, volendo a tutti i costi identificare la fede con un sapere» (p. 88). Davanti all’arroganza e alla sanzione immanente, i suoi occhi si sono seccati e ancora più il suo cuore: «Rinunciare alla cristianità non è un sacrificio doloroso» (p. 119). Di cui atto.

Per parlar chiaro, la Cristianità sarebbe morta per essersi presa troppo sul serio. L’armonia tra la Chiesa e la città terrena non sarebbe sopravvissuta alla tirannia della verità, aggravata dal rifiuto radicale della Modernità. Questa tesi, coccolata dai novatori, potrebbe bastare per rifiutare l’opera, se non fosse messo in discussione il senso di questo nuovo attacco da parte di un’erudita nota per la sua vicinanza agli ambienti tradizionali. A dire il vero, se questa tesi non è nuova, non è però normale che sia applaudita da questi ultimi.

La distruzione metodica della Cristianità è la dominante politica della seconda metà del XX secolo. Il tema del contendere non si rileva in questa constatazione, ma da una parte nella sua causa strumentale e dall’altra nel suo pronostico di società. La verità, strumentalizzata dal potere, avrebbe perso la sua potenza luminosa, dopo aver perso la sua aureola. Ne sarebbe seguìto un inesorabile discredito. È per la sua nota tossicità somatica che la cicuta ha nuociuto (e, ancora!) a Socrate. Se Platone, nel Crizia, è prudente quanto ai fenomeni che hanno inghiottito l’Atlantide, una catastrofe naturale resta comunque una causa più probabile dell’indegnità dei suoi abitanti. A Sodoma, secondo la Genesi, è il fuoco del Cielo che distrugge la città, e non le pratiche infami a cui vi si dava corso. Resta dunque altamente improbabile che nel cuore dell’ampia Cristianità solo un eccesso di fiducia nella legittimità dei suoi fondamenti abbia sortito l’effetto di minarli definitivamente. A dire il vero, questa supposta sanzione immanente dell’eccesso è analoga alla promozione di uno “spirito del Concilio” che si è incaricato di smantellare la città cristiana che lo Spirito Santo, il Paraclito, il Consolatore aveva imprudentemente suscitato per via ecclesiale, senza rendersi conto che Cristo non vi sarebbe stato onorato. Pur denunciando l’astrazione e la sofistica dell’implosione per abuso di verità, si può constatare che la politologa si adorna di un equilibrio clericale quanto alla sua affermazione controintuitiva. La verità non è diventata la cicuta delle nazioni cristiane. Il fallimento del mondo intero merita una Storia alla sua altezza. La Cristianità non ha questa fortuna, presso Chantal Delsol. Pur dichiarandola vittima di se stessa, giustamente punita, l’accademica resta serena. Esaminiamo la questione.

Contrariamente a quanto alcuni iniziano a temere, la fine della cristianità non è, a ben vedere, né l’inizio del caos, né la fine del mondo. Il paganesimo antico, che la Chiesa ha sovvertito e poi sostituito nel IV secolo, nei nostri giorni realizza una sovversione inversa. Questa inversione normativa fa risorgere il politeismo che, a ben vedere, dovrebbe meritare rispetto se non esigere l’adesione. Perché per qualche millennio fu lo stato naturale dei popoli. Questa risorgenza crea paura solo presso gli incolti. Una volta passato l’effetto del disorientamento e l’insicurezza dei punti di riferimento oscuri, può essere anticipata senza timore una probabile previsione sul futuro. Per l’accademica, il cristianesimo continuerà ad esistere. Certo, il discredito del dogma, il distacco progressivo dagli usi e costumi cattolici, l’allontanamento da qualsiasi liturgia offerta al Dio trinitario, contribuiscono a svuotare le chiese. Ma la cultura cristiana, quella delle feste religiose, del culto dei defunti, del prestigio delle cattedrali e dei luoghi dove soffia lo Spirito, senza dimenticare i santi del calendario, tutto ciò fa vivere la memoria del tempo delle convinzioni comuni in nome, non del vero, ma del bello. Il bello avvicina, senza costringere. La cultura ricicla, una volta disarmata, un’ecologia che ieri era coercitiva, oggi è oblativa. È tempo di condivisione rilassata, vabbè, ma di spoglie opime di ineguagliabile valore per i cattolici. Osiamo dunque porre la domanda: Chantal Delsol ha mai avuto un cuore all’unisono?

Incontestabilmente, l’accademica è affascinata dal mondo antico. Questo estetismo la tiene lontana dal bene comune cattolico. In sintonia con suo padre, agnostico, un positivismo di fatto la conduce verso le gioie filosofiche, positivismo che il talento dell’intellettualità si concede senza dover render conto al clero. Ottiene dal padre di lasciare il liceo confessionale, eccellente del resto (Chevreul), prima della maturità, per non dover seguire i corsi di filosofia “con una suorina” e raggiungere un liceo laico. Questa complicità col padre è all’opera in questo conservatorismo che ammira e protegge l’opera senza condividere la fede dell’artigiano, e fa coabitare due assiologie troppo parallele per incontrarsi prima dell’infinito, o prima del momento della dipartita? Ha a che fare con questa inquietante ambivalenza nei confronti della verità, venerata come ricerca personale, respinta quando la sua evidenza s’impone? Ma quale maurrassiano potrebbe sostenere che rinunciare alla Cristianità non è un sacrificio doloroso? Aristotelica cristianizzata, Chantal Delsol resta profondamente naturalista, e non tomista. Per lei, la filosofia non trova il suo compimento nel servizio alla teologia, ma nella propria emancipazione.

Dieci anni prima di quest’opera, nel 2011, Chantal Delsol aveva pubblicato L’âge du renoncement (Editions du Cerf). Tanto le 170 pagine del “libro del lockdown” sono di lettura scorrevole, nonostante le sortite irritanti, altrettanto le 300 pagine dense e esigenti del saggio precedente richiedono grande concentrazione. Prezioso ai suoi occhi, questo lavoro introduce al profondo pensiero della sua pensatrice? Si capisce che ha bisogno di evolvere in un modo speculativo dove la sua disinvoltura si dispiega. Nella Caverna, lei soffoca. Da quando, due anni prima, l’elitismo di un’aristocrazia pensante l’aveva accolta e cooptata, si può avanzare l’ipotesi che l’età della consacrazione poteva essere l’età della scelta e, dunque, della rinuncia: non si possono tenere due fili di Arianna sine die. Se si considera ancora che, su un’isola deserta, le basterebbe Fragments d’un Paradis di Jean Giono, si constata un forte bisogno di emancipazione, che privilegia la ricerca alla presa, la caccia alla cattura. Ma, ancora una volta, lei ci lascia alle nostre congetture.

Possiamo ammirare il ruolo federatore dei riti religiosi pagani come descritti da Fulste de Coulanges in La cité antique, nel 1864, anno del Sillabo, altro capolavoro. Ma non si possono ignorare né la dimensione imperativa di tali riti, né gli intrattabili ukase pagani. L’abbandono della verità vincolante potrebbe durar poco e vedersi sostituito da una doxa impegnativa, che non avrà la chiarezza di ciò che ella pretende essere superato. Il pensiero di Chantal Delsol è reso inquietante dalla convergenza che l’avvicina ai de-costruttori, che si ispirano ai Cinici dell’Antichità o a un Foucault contemporaneo. A furia di sdrammatizzare l’apostasia generale, chiudendo ancora una volta senza vergogna la parentesi costantiniana, e di ridurre la Chiesa in condizione di minoranza, come sanzione dei suoi errori, misuriamo l’immenso vuoto di questa sepoltura disamorata.

Si tratta della dimenticanza (!) della Salvezza delle anime, ragion d’essere della civiltà animata dalla Chiesa. Spianare i sentieri del Redentore verso i fedeli, e dei fedeli verso la Chiesa, è ciò che non ha posto nella cosmologia dell’accademica. Il Cielo è assente dal suo discorso. Pare essergli rivolta la stessa diffidenza di quella rivolta all’autorità del vero, il che, sebben spiacevole, non è illogico. Ormai, sotto la Coupole, può denigrare senza correre rischi la potenza della Chiesa di ieri, visto che è stata preceduta da un conferenziere funesto, Mgr Pierre Haubtmann, ormai dimenticato, ma incaricato all’epoca davanti agli illustrissimi, in qualità di co-redattore della Gaudium et spes. Il 14 novembre 1966, e la Documentation catholique (n. 2492, 17 giugno 2012, pagg. 585-590) lo attesta, il Concilio Vaticano II imponeva alla Chiesa il rinnegamento del proprio passato: ormai la Chiesa si sgancia dalla politica, rompe con il trionfalismo e non riconosce più nemici. Per essere chiari, la Chiesa di Cristo non è stata vinta, si è arresa al mondo, secondo le esatte parole di Maurice Clavel.

La fine della Cristianità non è la lenta, ma inesorabile, agonia intima che decreta Chantal Delsol. Ancora molto vivace fino al 1960, come attesta lo storico Gauillaume Cuchet, la Cristianità è stata metodicamente affondata dall’alto clero, che l’ha lasciata ai suoi rivali storici, per un saccheggio che non l’affligge di più della nostra accademica. Con la copertura dello “spirito del Concilio” i cui predicatori, pur non avendo più i pulpiti tanto denigrati, ci riempivano le orecchie. Su questo punto, non è cambiato proprio niente. Nonostante la sconfitta delle promesse e dei “sacrifici” che la Chiesa imponeva ai suoi drappelli per scandagliare il mondo, il Concilio resta un blocco compatto. O lo si accoglie così com’è, o si rischia la morte sociale nelle diocesi. Per l’alto clero, il Concilio incarna l’avvenimento totemico, che dà la vita nuova. Come corollario, un tabù indiscutibile vieta di modificare la minima componente. Su questo punto, la Roma postconciliare è rigida quanto una città antica o una società primitiva.

In L’âge du renoncement (Cerf, 2011), l’accademica si rassegnava, non facilmente, a dover scegliere tra due mondi: “Una scelta, un’opzione, oggi si decide a favore della saggezza degli uomini e a svantaggio della follia di Dio”. Dieci anni fa, la scelta restava dolorosa: “si ha voglia di capire con indulgenza le società stanche dell’eccesso di verità. Tuttavia, i matti della verità sono probabilmente i depositari di un’altra anima del mondo, di cui vegliano il bagliore prigioniero”. Dieci anni dopo, la scelta è fatta, e la sua sicurezza tranquilla l’allontana tragicamente dalla fedeltà cattolica. La Coupole per lei sostituisce l’Olimpo di Epicuro, la cui tribuna d’indifferenza non onora né l’irreperibile sensus fidei, né la compassione fraterna nei confronti dei battezzati, non meno assente. Quando afferma «Ma alla Chiesa, privata del suo potere temporale e di civilizzazione, non sarà però impedito di vivere » (p. 110), ci si chiede da dove venga questa certezza. Che sia connivente con i vincitori? Dopo aver dimenticato il suo anticomunismo di sempre e fustigato le alleanze militari destinate a proteggere i territori della Chiesa minacciati da questo flagello, quale rapporto con la realtà può ora avanzare?

Giudicate voi: «La missione deve essere necessariamente sinonimo di conquista? Si può pensare il cristianesimo sul modello dei monaci di Tibhirine piuttosto che su quello di Sepúlveda» (p. 119).

De profundis.

Philippe de Labriolle

(Traduzione dal francese di Orietta Tunesi)

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Philippe de Labriolle

Giornalista francese