Nell’articolo scritto per il “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” dell’Osservatorio Van Thuân [fascicolo 1 del 2021: vedi qui] faccio riferimento al pensiero di Vaclav Havel, i cui scritti invero offrono più di uno spunto sulla situazione attuale. Qui scelgo di rileggere le prime pagine del suo classico, “Il potere dei senza potere” (Itaca 2013), nelle quali si descrive la differenza tra sistema totalitario e sistema post-totalitario.

Havel tratteggia anzitutto i caratteri della dittatura in senso classico, grossomodo quella conosciuta fino agli inizi del XX secolo: provvisorietà, precarietà e instabilità, portata locale del fenomeno, forte bagaglio ideologico, forte supporto militare. A detta dell’autore, la situazione da lui vissuta nella Cecoslovacchia degli anni Settanta si configura invece in modo nuovo rispetto a tale consueto modello totalitario, e porta a riflettere su un nuovo modello dittatoriale emergente definito come post-totalitarismo.

Il primo dei tratti del post-totalitarismo è l’aver superato l’estensione classica, locale, delle dittature e l’essersi portato a controllare invece intere aree, trans-nazionali addirittura. Nel caso di Havel il riferimento è all’intero blocco URSS, che trascende i ristretti confini di uno Stato. Questo nuovo tratto è cruciale, in quanto conferisce al sistema “una stabilità esterna senza precedenti”, perché “la forza esercitata dal resto del blocco” (p.33) è in grado di vanificare i tentativi di ribellione che sorgessero in singole regioni o Stati.

Il secondo carattere è una più forte stabilità storico-culturale. Le dittature classiche erano temporalmente instabili, le dittature moderne hanno invece un radicamento storico-ideologico ben più sedimentato che rende difficile smuoverle. La dittatura comunista, per esempio, ha nelle “formazioni operaie e socialiste del XIX secolo” un fondamento poderoso. Cosicché nell’attuale contesto avviene che, a partire da basi culturalmente significative, socialmente accettate e difficili da contestare, si innestino sistemi perniciosi e però saldamente radicati e supportati (p. 34).

Al terzo punto si pone il particolare carattere delle nuove ideologie a sostegno del regime: quella post-totalitaria è una “ideologia assai più concisa”, ma pervasiva, paragonabile a una “religione secolarizzata”, capace di impregnare il pensiero della massa e di dominarla. La ragione del suo successo potrebbe essere dovuta al fatto che essa offre una dimora comoda in questa “epoca della crisi delle certezze metafisiche”, il cui prezzo però è “l’abdicazione alla propria ragione, alla coscienza e alla responsabilità” (Ibidem).

Un quarto aspetto è dato dal miglioramento delle tecniche di controllo del potere, che una volta vivevano di una certa improvvisazione e che oggi hanno raggiungo “meccanismi così perfetti ed elaborati di manipolazione diretta e indiretta dell’intera società” (p. 35).

Quinto elemento è la perdita di quella “atmosfera di passione rivoluzionaria, di eroismo, di spirito di sacrificio” che connotava il totalitarismo degli inizi. Al punto che – afferma Havel – lo stesso blocco sovietico rappresenta ormai “una forma diversa di società consumistica e industriale”, quasi una copia del sistema occidentale, completamente privata dell’anelito specifico delle prime braci rivoluzionarie socialiste, omologata al trend mondiale plutocratico.

Ecco presentato il sistema post-totalitario, col che dunque non si intende “un sistema che non è più totalitario”, quanto un sistema che “è totalitario in modo sostanzialmente diverso rispetto alle dittature totalitarie classiche” (p.36). L’implicito è che l’epoca successiva alle tipiche dittature totalitarie continua a portare con sé un potenziale totalitario, sia pur attraverso forme apparentemente non totalitarie. Da qui discendeva per Havel il timore di non riconoscere le tracce di un’impronta totalitaria solo perché essa aveva mutato i propri caratteri distintivi notori. E contro simile rischio si è mossa la dissidenza del nostro autore. Può darsi che la nostra generazione stia nuovamente incorrendo in scenari analoghi?

Per provare a capirlo, poniamoci la domanda: quali dei cinque caratteri post-totalitari è eventualmente possibile rinvenire nel contesto contemporaneo? Sembrerebbe tutti.

  1. Si sono estese e consolidate le aree di influenza, particolarmente di tipo culturale e finanziario, grazie al fenomeno della globalizzazione;
  2. la cultura modernista diviene sempre più patrimonio collettivo e le nuove generazioni faticano a prenderne le distanze e a riconoscersi nei valori più specifici delle proprie tradizioni di provenienza;
  3. nuove forme di ideologia sono comparse, apparentemente meno violente, ma programmaticamente più radicali e antropologicamente più invasive;
  4. le capacità di controllo dell’informazione e quindi dei popoli hanno toccato altissimi vertici di perfezione e di potere;
  5. le forme di consumismo individualistico per lo più trionfano, mentre tramonta a piè sospinto la passione sociale.

Ma, se già una simile considerazione vale in senso generale per la nostra epoca, cosa altro emergerebbe qualora provassimo ad applicare tale pentagramma alla gestione dell’epidemia di Covid-19?

  1. L’area di influenza si dilata, è il mondo intero ad esser stato investito dal fenomeno epidemico;
  2. il fondamento culturale si cementifica, tanto che questo fenomeno è stato interpretato tramite categorie di predominanza tecno-sanitaria che tutte le grandi agenzie culturali ufficiali hanno ratificato;
  3. la narrazione e la gestione degli eventi ha ridefinito i confini dell’analisi scientifica e le ha conferito valori morali e politici degni del portato ideologico di un novello Stato Etico, e ciò al punto che la precauzione medicale ha prevaricato lo stesso anelito soteriologico delle istituzioni ecclesiastiche;
  4. il dibattito pubblico è stato impedito, mentre il palinsesto del broadcasting internazionale si è uniformato attorno a una narrazione senza contraddittorio, accreditando un monopolio informativo di impatto sociale massiccio e travolgente;
  5. cenni di ribellione sono stati preventivamente inibiti, mentre la forma di vita isolata, individualista e consumistica è stata identificata quale soluzione sicura, come dimostrano indirettamente le fortune azionistiche delle grandi imprese dell’e-commerce e dell’hi-tech.

Dunque ritengo lecito affermare che i sintomi del post-totalitarismo fossero già presenti nella società contemporanea, e siano cresciuti in modo esponenziale nell’ultimo anno. Questa diagnosi ci coglie di sorpresa?  Scriveva Vaclav Havel: “l’intero movimento sociale, il cui culmine fu il 1968, non arrivò – per quello che riguarda i cambiamenti strutturali reali – che alla riforma, alla differenziazione o al ricambio di strutture solo subalterne dal punto di vista del potere reale, e non toccò il nocciolo stesso della struttura di potere del sistema post-totalitario” (p.119). A dar credito ad Havel, dovremmo ammettere che la società – nonostante alcune parentesi e azioni di reazione degli ultimi decenni – sia rimasta sostanzialmente avvolta in un milieu di sapore post-totalitarista, le cui basi non furono compromesse neppure dalla rivoluzione sessantottina.  Se però è vero che l’Occidente intero alligna in tale mentalità e se è pertinente dire che le strutture stesse di influenza globale hanno alimentato e accresciuto fino a noi una qualche forma di post-totalitarismo, ciò è avvenuto in modalità sempre più sottili, tali che la moltitudine non è stata in grado o non ha sentito il bisogno di difendersene. Esiste cioè un rapporto inversamente proporzionale tra la crescita del controllo post-totalitarista e la percezione del medesimo da parte delle masse, o almeno la percezione dello stesso come elemento negativo.

Riassumendo: il totalitarismo si è evoluto in post-totalitarismo e contro di esso ha parlato e agito il movimento dissidente, di cui Havel fu capofila. Negli anni più recenti i sintomi del sistema post-totalitarista non sono venuti meno bensì sono cresciuti, di certo sono cresciute le condizioni di possibilità che facilitano il realizzarsi di tali sintomi e quindi di un sistema post-totalitario effettivo. In particolare ciò può dirsi per l’escalation di tensioni sociali degli ultimi 13 mesi a livello planetario. Si aggiunga che l’intensificarsi di una simile situazione fa il paio con una difficoltà sempre maggiore della società di avvedersene. Sono divenute più sottili le strategie di potere o sono venuti meno uomini disposti a una vita da dissidenti? Lasciamo al lettore di rispondere a questa domanda e chiediamoci invece insieme che fare davanti a tale orizzonte. In primis è doveroso denunciare la situazione che si è creata e che, seppur per ipotesi, abbiamo esposto in questi paragrafi. Quindi bisogna interrogarsi attorno al futuro prossimo che si staglia dinanzi a noi. Le possibilità mi paiono due: o l’onda post-totalitaria si è esaurita e possiamo smettere di preoccuparcene, oppure essa è persistita e ora, sulla scia della evoluzione socio-politica epidemiologica, è in condizione di ergersi con vigore e potenza rinnovate. Che se poi ammettiamo la seconda ipotesi, le reazioni potrebbero essere ancora una volta due: la prima è quella di procedere proni, indifferenti alle proiezioni qui esposte, assuefatti alla situazione progrediente, decisi a non problematizzare gli eventi, di fatto così assoggettandoci definitivamente a forme di post-totalitarismo riemergente, che potrebbero farsi vieppiù stringenti e disumane, venendo a toccare nuove e più puntuali forme di espressione liberticida e invasiva; la seconda è quella di seguire Havel nel suo appello a un risveglio della coscienza, all’insegna della verità, della morale e della passione civile comune, opponendosi sia come singoli liberi e poi come comunità di vita autentica, al novello spauracchio post-totalitario, quali che siano le forme che riteniamo abbia già assunto o temiamo assumerà.

Rispetto a tale bivio, continuo a ritenere che questa epidemia abbia un qualcosa di benefico in sé, perché ci lascia ancora un discreto margine di scelta e di libertà e anzi potrebbe aver giovato a risvegliare in noi l’appello a un giudizio più consapevole e a un posizionamento più responsabile di fronte al reale. Nulla ci assicura che in un futuro anche vicino avremo nuovamente una simile opportunità. E dunque il tempo è propizio per decidersi, ma nel decidersi, non si dimentichi l’aut-aut cui ci ha richiamato Havel in tempi non sospetti e che oggidì si va ravvivando: “O il sistema continuerà a sviluppare i propri elementi post-totalitari e si avvicinerà inesorabilmente all’allucinante immagine che Orwell dà del mondo dell’assoluta manipolazione, soffocando definitivamente tutte le manifestazioni più articolate di vita nella verità; oppure la vita indipendente della società, inclusi i movimenti dissidenti, si trasformerà lentamente ma inevitabilmente in un fenomeno sociale sempre più importante, che riflette sempre più chiaramente le reali tensioni sociali” (p. 121).

Don Marco Begato

(Foto: wikipedia)

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Don Marco Begato
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