La giornalista Martina Pastorelli si è occupata anche del nostro Osservatorio nell’ampio articolo pubblicato ieri 9 giugno dal quotidiano “La Verità” e dedicato all’ideologia fatta propria dal potere terapeutico durante il periodo Covid e che sembra destinata ad essere mantenuta purtroppo anche in futuro. Il riferimento è al numero del nostro “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” dedicato a “Sanare la sanità. Uscire dalla società dei pazienti permanenti” [VEDI e ACQUISTA] e soprattutto all’articolo in esso contenuto di Dom. Giulio Meiattini il quale, tra l’altro, ricorda quanto previsto nel romanzo “La montagna incantata” di Thomas Mann. Riportiamo qui di seguito un brano dell’articolo di Meiattini che sembra descrivere letterariamente la nostra possibile situazione.

Partiamo dalla letteratura, precisamente dal romanzo di Thomas Mann Der Zauberberg (1924), reso generalmente nella nostra lingua con La montagna incantata, forse meglio traducibile con La montagna magica. L’opera ci permette di approfondire il tema della malattia in rapporto alla medicina e al suo potere “magico”. Uno dei temi più presenti nel romanzo è quello della trasformazione dell’uomo in paziente permanente e, al tempo stesso, il tentativo di uscire da questa specie di incanto.

Il romanzo si apre con la descrizione del viaggio che porta Hans Castorp, giovanissimo ingegnere navale, da Amburgo alle altezze rarefatte di una clinica per tubercolotici situata nelle Alpi svizzere, sovrastanti la cittadina di Davos. Egli vi si è recato non per motivi di salute, ma per una vacanza di tre settimane, in visita al cugino, Joachim Ziemssen, che vi si trova ricoverato da tempo. Fin dai primi giorni, tuttavia, per il giovane Hans inizia un processo di trasformazione interiore, all’interno dell’atmosfera surreale della vita del sanatorio. Questo appare come un grande albergo, una specie di luogo di villeggiatura, dove si conduce una vita disciplinata da regole sanitarie che abbracciano l’intera giornata dei residenti. Questi conducono una vita che per certi aspetti è quella di persone in cura, per altri ancora quella di borghesi che trascorrono una lunga vacanza in un luogo protetto. Il recinto del Berghof è come un piccolo mondo parallelo. La tubercolosi, male emblematico di un’epoca (come la peste nei secoli passati e il cancro in tempi più recenti), è una malattia invisibile, che corrode dal di dentro, assumibile perciò come metafora di una società (quella borghese) florida all’esterno, ma che porta in sé il principio della propria consunzione mortale.

Hans Castorp, appena arrivato, fa la conoscenza di uno dei due medici che dirigono l’istituto, il dottor Krokowski. Il nuovo venuto, presentandosi, precisa subito che il motivo della sua venuta non è la malattia, ma una semplice visita: «e aggiunse che, grazie a Dio, egli era perfettamente sano».

«– Davvero? – domandò il dottor Krokowski sporgendo il capo in avanti, quasi con aria di burla, e accentuando il suo sorriso (…) – Ma allora lei è un tipo degno di uno studio. Vede, non mi è mai capitato di conoscere un individuo perfettamente sano. (…) Dunque, lei non ricorrerà ad alcun trattamento medico sia fisico sia psichico?

– No, mille grazie! – rispose Giovanni Castorp che era lì per fare un passo indietro. (…)

– Beh! Buona notte, signor Castorp: dorma tranquillo nella piena coscienza della sua intatta salute! Buona notte e arrivederci!».

Le parole del dottore insinuano un dubbio: esiste qualcuno davvero sano? Cosa è la salute? Con una battuta che ha del geniale l’uomo di scienza capovolge la prospettiva dell’interlocutore: già per il fatto che qualcuno sia sano, o si ritenga tale, lo rende degno di studio, e dunque lo consegna in ogni caso alla medicina. Il sano, ammesso che esista, farebbe talmente eccezione che rientrerebbe subito nell’ambito dei fenomeni anomali che devono essere studiati dalla scienza. Insomma, da queste parole si deduce che essere sani costituisce una condizione insolita che, proprio per questo motivo, va studiata e spiegata medicalmente. Il sottinteso è che il medico ha, per così dire, una giurisdizione di principio su ogni essere umano, perché tutti, in fondo, sono dei malati, anche senza saperlo, dei “malati anonimi”. L’eccezione, qualora si desse per davvero, non sottrarrebbe il soggetto sano alle competenze mediche, ma ve lo ricondurrebbe proprio a motivo della sua eccezionalità.

Nasce ben presto, in Castorp, il dubbio riguardo alla sua effettiva condizione di salute, che si associa ai primi malesseri. Un passo importante nella sua assimilazione all’ambiente sanatoriale è il rito della misurazione della febbre. Nessun paziente al Berghof è senza un termometro e più volte al giorno lo si deve usare. Ecco la prima volta per Castorp:

«– Non misura mai la sua temperatura, lei?

   – Sì, signora Superiora, quando ho la febbre.

  – Figliolo della terra, prima di tutto si misura la temperatura per vedere se si ha la febbre. Ed ora, secondo la sua opinione, non ne avrebbe?

–      Non so bene, Superiora; non so distinguere bene. Veramente, ho un po’ di alternanza di caldo e freddo da quando sono quassù.

–      Ah ah. E dove è il suo termometro?

–      Non ne ho, signora Superiora. A che scopo ne avrei? Sono qui in visita, sono sano io».

Così, il nuovo arrivato acquista il termometro e fa la sua prima misurazione. Il risultato (37,6° alle dieci del mattino) mette in dubbio la presunzione di sanità e inizia il sospetto di malattia e il processo di trasformazione dell’uomo sano in presunto o probabile malato. Importante la frase della Superiora: non si usa il termometro quando si ha la febbre, ma per vedere se si ha la febbre. Si evidenzia una mentalità profilattica: non aspettare di sentirsi malati, per usarlo, ma usarlo per controllare se si è malati. In quest’ottica, lo strumento diagnostico non è più un accessorio da usare in casi speciali, ma potenzialmente è necessario a priori.

Anche l’aria svolge la sua funzione strategica: «l’aria qui non è soltanto buona contro la malattia, è buona anche per la malattia; anzi, talvolta è l’aria stessa che porta la malattia a manifestarsi, cosa che costituisce un vantaggio ai fini della sua guarigione» (I, 216). In altri termini, il luogo della cura diventa il luogo della diagnosi e, ancor più, il luogo dell’insorgere dei sintomi, che infatti erano assenti finché Castorp non vi si è recato. L’ordine consueto – sintomi-diagnosi-cura – è perciò come invertito: si va nel luogo di cura, dov’è l’aria è buona, per far emergere i sintomi che permettono la diagnosi. Inversione simile a quella del termometro: si va nel luogo di cura, per scoprire se si è malati, non viceversa. Dunque «l’aria buona per la malattia», significa, sibillinamente, che giova alla malattia, in un doppio o triplo senso: l’aria cura la malattia, ma prima ancora la svela e, forse, la fa persino sorgere. Si resta nell’ambivalenza irrisolta e ironica. In effetti, i sintomi di disagio che Castorp avverte, insorgono col suo arrivo al Berghof.

A ciò si aggiunga il carattere protettivo e confortevole della vita nel sanatorio. La cura consiste in «tranquillità, pazienza, disciplina, misurare, mangiare, riposare, aspettare e bere tè». Una vita, tuttavia, “senza qualità”, potremmo dire col titolo di un altro romanzo del ‘900, fine a se stessa, parallela ed estranea alla vita reale. Un’esistenza di pura conservazione della salute, della “nuda vita”. Assimilandosi sempre di più all’atmosfera dell’alta montagna del sanatorio, dove tutto è nobilitato dall’alto impegno della cura, il mondo della pianura pian piano acquisisce un aspetto insolito. Esso diventa il “mondo di laggiù”, contrapposto al luogo di cura definito “il mondo di lassù”. Il sanatorio è l’altezza, che avvicina a un mondo rarefatto ed eletto, abitato da esseri fragili eppure raffinati. “Lassù”, infatti, si sanno cose che “laggiù” non si conoscono.

Castorp subirà questo incantesimo per sette anni. Verrebbe da pensare ai sette anni in cui Ulisse resta prigioniero della magia di Calipso, nell’isola di Ogigia, in un paradiso artificiale che gli impedisce di poter proseguire l’avventura rischiosa, ma reale, del suo viaggio di ritorno verso la patria. Ciò che strapperà Castorp e gli altri degenti all’incantesimo, per riportarli alla “pianura”, sarà – grave monito anche per l’oggi – lo scoppio della guerra. È chiaro, in ogni caso, che la montagna “magica” tende a diventare il luogo di una normalità parallela, che mette al riparo dai “pericoli” della vita in pianura, una normalità fatta di tutela, controllo, protezione, elevazione della cura a condizione permanente di vita.

[di Giulio Meiattini]

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