
“Il martire islamico non muore per testimoniare il proprio credo …. Muore invece nel contesto del jihad, perché l’islam possa trionfare” (Card. Robert Sarah), questo fa la differenza tra il martirio del Corano ed il martirio cristiano. Lo shahid è il musulmano che cerca il martirio. Il martire cristiano non cerca la morte, ma l’accetta davanti alla prospettiva di rinnegare Cristo. È quello che è accaduto ai venti giovani egiziani copti, ed al ventunesimo giovane ghanese Matthew che i jihadisti volevano mandare via perché non era egiziano e forse neppure cristiano. Matthew è rimasto perché riteneva ingiusto abbandonare i suoi amici, che erano amici di Cristo. Per questo si dichiarò cristiano, che lo fosse o meno diventa irrilevante. Nel filmato dell’esecuzione “la sua espressione non è di paura, non traspare alcuna tensione. Il suo carnefice lo tiene per il coletto, come se Mattheu potesse ancora sfuggirgli; così il collo nudo che pochi momenti dopo sarà tagliato, è completamente esposto” come quello dei suoi venti amici che, in tuta arancione, portati all’estremo sacrificio lungo la spiaggia libica sul Mar Mediterraneo mostrano volti fermi, composti, anche se consci del momento. Spinti in ginocchio dai loro carnefici, dalle labbra dei ventuno si intuisce una preghiera, mentre un jihadista, con una tuta mimetica, diversa da quella dei suoi compagni, con la punta di un pugnale rivolto verso gli “spettatori” recita, in inglese, un salmo mortifero, un messaggio minaccioso rivolto all’occidente.
È il 15 febbraio 2015, ventuno giovani, venti egiziani ed un ghanese in Libia per lavoro, sono rapiti da una banda di jihadisti dell’ISIS che, forse, grazie ad un’agenzia di servizi pubblicitari occidentale assoldata dallo Stato islamico, realizza un filmato propagandistico che prevede lo scenografico assassinio di un gruppo di “infedeli”. La sequenza ha un innegabile valore cinematografico, è studiata nei particolari e votata ad imprimere l’immagine di una organizzazione islamista strutturata, determinata e micidiale.
Martin Mosebach, fecondo autore tedesco di levatura internazionale, scrittore di poesie, narrative, articoli, saggi e resoconti di viaggi, per i tipi della Cantagalli, affronta un percorso nell’Egitto copto per capire questi uomini, questi martiri moderni che segnano il nostro presente e ci proiettano nel futuro. Tertulliano spiega che “Sanguis Martyrum, Semen Chistianorum”, il sangue dei martiri è il seme dei cristiani. La narrazione del viaggio in Egitto di Mosebach si trasforma nella scoperta di un mondo affascinante e commovente, la lettura diventa una meditazione su loro, i martiri ed il loro mondo, e su noi, ed il nostro mondo.
Le popolazioni copte sono gli egiziani più antichi, erano lì al tempo dei faraoni, prima della conquista arabo-musulmana del nord Africa. Attualmente costituiscono il 10% della popolazione, ma c’è chi sostiene siano molti di più, il governo si guarda bene dall’avviare un censimento della popolazione. La chiesa copta fu fondata dall’evangelista Marco, e si costituì in chiesa autonoma nel V secolo, in concomitanza al concilio di Calcedonia (451), in seguito ad una importante controversia cristologica. I copti hanno tramandato e conservato la loro liturgia di sempre che è aspetto fondamentale nella formazione dei fedeli, come emerge dalla narrazione di Mosebach.
Un popolo combattivo e fiero della propria identità cristiana, che ha finito col giocare un ruolo determinante nella storia e nella postura politica del Paese delle piramidi. Persino gli ottomani si mostravano non sicuri dell’assoggettamento dell’Egitto al loro dominio. Oggi i copti lottano per la loro sopravvivenza che, al momento, trova una corrispondenza positiva nel regime del Generale Al Sisi. Comunque l’affresco di Mosebach mostra una chiesa viva, in cui la vita liturgica ed il canto liturgico, in particolare, diventano luogo di preghiera e formazione per tutti i fedeli. Lontani dalle elucubrazioni razionaliste e moderniste di certe comunità parrocchiali occidentali, le comunità copte locali si riuniscono per preparare, celebrare e cantare la liturgia dalla quale traggono il più della loro formazione cristiana e con la quale nutrono la loro fede. Lontana dalle nostre dinamiche pastorali dai singolari obblighi di catechesi pluriannuali per l’accesso ai sacramenti, per le comunità cristiano-copte vita e fede vanno insieme, diventando una formazione permanente. Lo stile di vita della maggior parte dei fedeli egiziani è essenziale e laboriosa, non c’è tempo per escogitazioni dottrinali o liturgiche, in un Egitto in cui oltre la povertà è diffusa la miseria, i giovani copti trovano nella fede il punto di riferimento morale e sociale che dà stabilità e continuità alle loro comunità cristiane.
Dalla seconda metà del XX secolo la Chiesa copta ha ricevuto nuovo impulso e “antichi monasteri, quasi completamente abbandonati si sono riempiti nuovamente, la loro attrazione ad oggi non è diminuita, oggi riescono appena a contenere l’affluenza di postulanti”. Mosebach, incontrando i familiari dei martiri nei villaggi di provenienza, scopre un mondo che pensa se stesso, come “la Chiesa dei Martiri” che pensa al martirio come un dono, con una attenzione centrata, non sul fatto, ma sul dopo … sui novissimi, il paradiso, la santità. I familiari hanno visto il filmato, hanno visto i loro figli decapitati e il perdono prorompe da un ringraziamento. Queste famiglie hanno un santo in cielo, che è sempre presente fra loro, un santo da pregare, un santo che fa i miracoli e di questo occorre ringraziare Dio: “il nuovo presente dei decapitati, santi e operatori di prodigi, per le famiglie è più importante del passato”. Insomma i copti coltivano la virtù della speranza, non è tutto qua perché c’è l’al di là. Mentre l’occidente coltiva “l’idolatria della vita” protetta dal Servizio Sanitario Nazionale, i copti sanno che c’è un senso eterno nelle morti dei loro fratelli. Un senso che ha lasciato di stucco diversi musulmani che pensavano di gettare i cristiani nel terrore e nell’odio, invece li hanno ritrovati in una speranza viva e piena di dignità che ha colpito la penna di Mosebach. Davanti al filmato dei 21 martiri egiziani, l’uomo d’occidente penserà che “la crudeltà è un sintomo di arretratezza”… mala “fede che non fa nessuna concessione, lo è pure?”.
Paolo Piro
Martin Mosebach, I 21 – Viaggio nella terra dei martiri copti, Edizioni Cantagalli, Siena 2022 [QUI].


Paolo Piro
Membro del Collegio dei Autori