A livello nazionale negli ambiti sociali ed educativi sta emergendo con sempre maggior evidenza, nel macro e nel micro, un fenomeno preoccupante: la sanitarizzazione dell’educazione.

Sembra si stia diffondendo una moda di pensiero secondo la quale ai problemi sia più che sufficiente ed adeguato dare una risposta solamente sanitaria. A partire dai consultori familiari che lentamente e progressivamente sono trasformati in presidi medici del territorio, tagliando fondi e figure professionali per gli interventi che insistono sulle problematiche personali e relazionali, interventi di accompagnamento tante volte risolutivi e migliorativi nel lungo termine per il singolo, per il nucleo familiare e per il territorio stesso in cui sono presenti. Per passare ad Ulss che, con circolari regionali in contrasto con le normative nazionali e con le decisioni accademiche di innalzare il grado di preparazione degli educatori come esito di un processo di ricerca scientifica, includono nei bandi di strutture sanitarie o di accoglienza come Rsa e comunità, solo educatori sanitari appartenenti all’ordine dei medici, o addirittura di accorpare l’ambito educativo a professionalità come logopedisti o tecnici riabilitativi, di formazione prettamente sanitaria, oppure in alcuni casi inserendo personale non qualificato, senza titoli, escludendo così o abbassando il livello professionale di una fetta importante di professioni educative, come pedagogisti ed educatori socio-pedagogici in ambiti e ruoli definiti da una marcata caratteristica educativa che solo i professionisti dell’educazione possono ricoprire.

Perché? Perché le professioni educative abilitano, cioè usano le potenzialità e la struttura della persona e delle risorse anche esterne, intervenendo sul qui ed ora, costruendo una progettualità funzionale al cammino della persona per renderla ‘abile’.  Per far questo è necessaria una forma mentis aperta che sappia valutare il particolare ma anche il generale, per ricomporre il tutto in una progettazione pedagogica a breve, medio e lungo termine. L’educazione per sua natura è abilitativa e preventiva, interviene non solo nei processi della persona ma anche nel coordinamento e nel raccordo con le risorse esterne ad essa per creare un ambiente comunitario che porti agio alla persona e alle relazioni sociali attorno ad essa.

La sanità invece è riabilitativa. Le professioni sanitarie riabilitano da un problema individuato e definito clinicamente. Mi confidava una psichiatra responsabile di un servizio pubblico come interventi educativi ben fatti fossero preventivi e risolutivi di un ampio raggio di problemi che purtroppo non affrontati portavano all’accesso ai servizi in condizioni ormai croniche.

Questa visione ha raggiunto anche il mondo della scuola. Una realtà che viene vista da alcuni come vasto bacino di utenti a cui dedicare ed attingere risorse mirate. Dovrebbe essere il luogo privilegiato dell’educazione perché suo fine è rendere abili quanti l’attraversano, trasformandone le potenzialità in abilità personali e sociali. Molti insegnanti, dirigenti e personale scolastico vivono con dedizione questa mission e i risultati ci sono… nelle persone e nelle relazioni sociali. Quello che preoccupa è il livello superiore, quelli che stanno nella stanza dei bottoni per spiegarci meglio. Troppo spesso si sente come nella classe politica e dirigente le visioni, e quindi le azioni, siano di tutt’altra natura rispetto a quella educativa, che troppe volte è la cenerentola di turno nel processo decisionale. Per alcuni la scuola si è trasformata in businnes da gestire al meglio, possibilmente incanalandone le risorse verso lidi privilegiati. Lo stesso mondo della sanità è un grande affare, dove non si vede la persona ma solo la patologia.  

L’intervento educativo attiverebbe un processo virtuoso che porterebbe alla progressiva risoluzione del problema. Il pensiero di alcuni potrebbe essere ‘Dove l’interesse e il guadagno se il problema viene risolto?’ mentre il pensiero di un buon amministratore dovrebbe essere ‘Se investo nella prevenzione, intercettando con strumenti educativi ed una prospettiva pedagogica a lungo termine, verificando i risultati, posso liberare risorse da reinvestire in altri ambiti’. Mi chiedo quale sia  la prospettiva verso la quale ci vogliamo dirigere come società civile. Vogliamo veramente continuare a gestire le emergenze sociali e poi sanitarie, non affrontando per tempo i problemi, o li vogliamo prevenire e reinvestire nella crescita personale e comunitaria? La ricchezza culturale e morale propria degli italiani, con personalità che hanno fatto la storia e definito la rotta, sembra perdersi nell’ anteporre una visione sanitaria in cui tutto diventa patologia, problema, oppure un’esclusiva ed efficiente gestione economica o interessi di pochi o una qualsivoglia ideologia, anche futuristica, al bene personale e sociale dei cittadini. Cambiamo rotta. Approcciamoci ad una progettazione che utilizzi principi pedagogici che hanno le loro radici in una scienza dell’educazione che conosce l’uomo, lo sa accompagnare nel suo ciclo di vita completo dall’infanzia alla vecchiaia, sa guardare al qui ed ora ed allo stesso tempo ad una prospettiva strategica di lungo termine.  

Silvia Gobbin

Pedagogista, Padova

                           

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Silvia Gobbin

Pedagogista, Padova